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Negli ultimi tempi parli spesso di ‘intercorporeità’, soprattutto in riferimento alla funzione-es del sé. Questo interessante paradigma teorico-clinico, ‘l’intercorporeità’ appunto, come può essere rivisitato alla luce delle due diverse forme di aggressività, o meglio della distinzione fra aggressività e potere che hai ora messo in luce?
Ed inoltre: le tue riflessioni sull’aggressività sembrano delineare una teoria dello sviluppo tutta centrata sull’esperienza percettiva (etero e propriocettiva). Il bambino sperimenta sempre le prime forme di riconoscimento o di squalifica della madre attraverso la percezione. Puoi dire qualcosa di più specifico al riguardo?

Gli umani vivono in un’inevitabile traità: da tempo evito di parlare di ‘con-esser-ci’ (pur con la sua fascinosa eco heideggeriana) e preferisco parlare, di norma, di ‘tra-esser-ci’. E la traità è sempre corporea e comunque intercorporea. L’intercorporeità è, infatti, una categoria puntuale a livello teorico ed efficace dal punto di vista clinico proprio in una prospettiva squisitamente gestaltica. Ad esempio, in GT si parla di interruzioni di contatto, ma questo concetto diventa fenomenologicamente osservabile e raggiungibile solo se si coglie nel suo essere – come direbbe Henry – ‘incarnato’ a livello intercorporeo. Perché alcuni introietti genitoriali diventano rigidi (e condizionano in modo pesante la funzionalità di un organismo) mentre altri no? Perché certi introietti (quelli rigidi, resistenti ad ogni intervento verbale) sono stati trasmessi non solo a parole, ma dentro una tensione intensa che dal corpo della figura genitoriale è passata a quello del bambino. Senza tener presente l’intercorporeità, allora, il lavoro sulle interruzioni diventa lentissimo e, spesso, inefficace.

Dove l’attenzione alla traità corporea diventa particolarmente visibile e di grande (e, a volte, immediata) efficacia è nelle sedute familiari. Nel mio modello di terapia familiare sottolineo molto il dato processuale che ogni corpo nella famiglia prende forma e postura a seconda del corpo che gli sta vicino, di quello che sta più lontano, di quello che gli sta di fronte (la prossemica relazionale nella famiglia, cioè, determina la formazione dello schema corporeo). In questo senso – e mi riferisco alla seconda parte della tua domanda – è utile tenere presente che nell’enterocezione del corpo bisogna includere non solo la propriocezione (sentire il mio corpo), ma anche la percezione del corpo (o dell’ambiente non umano) che mi sta vicino. Teoria fra l’altro condivisa, a mio modo di vedere, da un autore a te molto caro, Damasio, quando conferma a livello di neuroscienze l’ipotesi (da tempo proposta da varie teorie psicoterapiche) della centralità delle emozioni di base – background feelings – nelle decisioni e nelle interazioni. Si può affermare, a questo punto, che i pensieri su se stessi e quelli relazionali emergono nell’intercorporeità, ovvero dal corpo in interazione con altri corpi. È vero – come viene sostenuto – che, a loro volta, anche i pensieri provocano modifiche corporee, dando vita ad una circolarità corpo-pensiero-corpo, ma sempre più le neuroscienze sembrano confermare che il punto di partenza di questa circolarità rimane il corpo o, aggiungo, la relazione tra i corpi.

Io credo che le categorie intimamente gestaltiche dell’intercorporeità e della correlata intenzionalità organismica relazionale rimangono delle intuizioni ermeneutiche e cliniche geniali, ancora inesplorate non solo dalle altre psicoterapie, ma anche, in parte, dalla comunità gestaltica.
Non pochi gestaltisti, da qualche tempo, tentano di giustapporre il concetto di intersoggettività al corpus teorico-clinico della GT, ma alcune di queste operazioni, come a suo tempo aveva previsto From, si rivelano interventi di inutile maquillage. Non ci si rende conto, infatti, che le cose possono stare al contrario: è lo stesso concetto di intersoggettività che può (e deve) arricchirsi – come io ho sempre sostenuto e lo stesso Stern ha riconosciuto – delle categorie gestaltiche dell’intenzionalità (e, aggiungo, dell’intercorporeità) per non rimanere, a mio avviso, ad un mero livello descrittivo.

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Tratto da G. Salonia, L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico, in «GTK Rivista di Psicoterapia», 2, 2011, pp. 49-66.


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