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La resistenza che a volte gli immigrati manifestano verso l’assimilazione della nuova cultura, non è ostilità verso la terra che li sta accogliendo: è una dichiarazione d’amore verso la terra che si è dovuta lasciare. […]

Se (lo straniero) si apre al nuovo mondo, se sente che lì sta bene, che la gente gli vuole bene, tutto questo potrebbe essere anche percepito (da sé e dagli altri) come un tradimento verso coloro che ha lasciato: come posso essere gioioso se i miei cari sono ancora nell’indigenza? La benevolenza paradossalmente diventa una tortura. Si ha come un impasse che blocca l’immigrato perché egli non può essere pienamente triste, né pienamente grato. Come può essere triste se ha da mangiare, se ha un tetto, la possibilità di una vita nuova? Come può essere grato se questo è solo per lui e non per i cari che ha lasciato? Così la sua vita può oscillare tra rabbia e senso di colpa: modi diversi per custodire l’identità relazionale, non per distruggere la terra ospitale.

L’immigrato non vuole fare guerra alla nuova gente, vuole restare fedele alle sue radici. Il compito che viene affidato a tutti coloro che si occupano degli immigrati è aiutarli ad elaborare la separazione dalla loro terra, tristi nell’anima ma senza sentirsi ingrati. Aiutarli a piangere perché la loro terra è lontana è l’inizio della loro integrazione: sarà questo che poi li renderà capaci di vivere con gratitudine nella terra che li ha accolti e di sentirla propria, come lo è quella dove sono nati.

Gaetano La Speme, L’incontro che cura. Gesù, noi, gli ultimi, ed. Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pagg. 46-47

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