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di Giovanni Salonia *

Nel 2154, sul pianeta Pandora, a 44 anni luce di distanza dalla Terra, vive la popolazione dei Na’vi. Jake Sully, ex marine rimasto disabile in battaglia, accetta di prender parte a una missione umana sul ricchissimo pianeta. In realtà, però, a compiere la missione non è Jake ma il suo avatar, un corpo reale, frutto dell’ibridazione del DNA dell’uomo con quello dei Na’vi. L’avatar dell’omonimo film di James Cameron è probabilmente la punta estrema immaginaria del contatto mediato tra soggetti: l’idea di poter entrare in relazione con l’altro attraverso la mediazione di dispositivi, spinti magari fino al massimo del realismo ma pur sempre distinti dall’immediatezza del corpo. È questa una delle icone della nostra epoca. Sembra davvero che McLuhan avesse ragione: il mezzo è il messaggio. Lo strumento attraverso cui comunichiamo qualifica nell’intimo quel che diciamo. Chiediamoci allora: cosa cambia tra un tvb scritto su uno schermo e un ‘ti voglio bene’ detto vis-a-vis?

Partiamo da un dato innegabile: stiamo pian piano dematerializzando ogni aspetto della nostra quotidianità. Visitiamo negozi virtuali. Facciamo acquisti che ci fanno risparmiare tempo (e denaro), bypassando però quel breve ma caldo scambio di opinioni che ‘umanamente’ avviene tra negoziante e acquirente (oggi cerchiamo le recensioni, casomai). Riceviamo informazioni continue e partecipiamo di un sapere dematerializzato universale. Tutto questo serve a mantenere il nostro equilibrio in un mondo in cui siamo esposti al contatto in maniera incomparabile rispetto ai nostri antenati (Lorenz). C’è insomma una funzione regolativa della comunicazione ‘strumentale’, mediatica, che ci consente di vivere e di orientarci in un contesto eccessivamente sollecitante, colmo di opportunità. 

Come succede in ogni rivoluzione della tecnologia della comunicazione, il rischio è dietro l’angolo. Qual è il rischio per noi, oggi? Lo dico in una parola: scambiare il vuoto per il pieno. Le strade sono vuote di bambini, mentre le camerette sono piene. Piene di cuccioli d’uomo curvi sui loro cellulari o impegnati a giocare a distanza coi loro coetanei grazie ai videogames: l’amico con cui giocare, parlare, con il quale iniziare una partita si trova oggi dall’altra parte del mondo. È una possibilità immensa offerta dalla cosiddetta cyber-relational-addiction, ma c’è il rischio che questo diventi l’unico (impoverito) modo di comunicare. È una legge della vita: ciò che facilita ha bisogno dell’‘altro’, della differenza, per non diventare abitudine che blocca e non fa crescere. 

Assumiamo due coordinate costitutive della condizione umana: il bisogno di entrare in relazione e il rischio di entrare in relazione. Siamo sempre  in relazione con altri, siamo in una inevitabile traità con le cose e con gli eventi, ma quando entriamo in contatto con l’altro il bisogno e l’attrazione sono accompagnati dalla paura. Il riconoscimento dell’altro – ci ricorda Gadamer – è sempre terreno di lotta. Come andrà l’incontro? Sarò ferito? Sarò soddisfatto, deluso, o peggio umiliato? Ed ecco che naturalmente siamo indotti a dosare il rischio. In un mondo così ricco e complesso lo ‘strumento’ è un mezzo eccezionale di controllo del rischio. Mentre un tempo, nelle interazioni verbali, la via più facile era iniziare da lontano, porre tante premesse prima di un ‘ti voglio bene’, adesso esistono altre possibilità, ovvero altre scorciatoie. Possibilità, scorciatoie, che ci permettono in sintesi di ridurre il coinvolgimento del corpo (ossia dell’anima). 

Non c’è dubbio infatti: la pienezza del rischio dell’incontro la viviamo nell’incontro faccia a faccia. Tutti sperimentiamo come i discorsi con cui ci prepariamo ad incontrare l’altro nel momento del contatto reale svaniscono, spesso si dimenticano. Farfugliamo quando l’altro è di fronte. In altre parole: l’intercoporeità rappresenta il rischio più alto. È chiaro come si possa ridurre questo rischio: diminuendo la presenza del corpo: la lettera, il messaggio al cellulare, il video, il telefono… Ad ogni senso che viene eliminato il rischio dell’incontro si riduce. Da una parte apprendiamo a gestire il livello di rischio a seconda del nostro ‘coraggio e della nostra attrazione, dall’altra impariamo che lo strumento si intreccia con l’anima. 

Per dirla in modo quasi banale: noi decidiamo quanto corpo, quanta anima vogliamo mettere in un messaggio scegliendo lo strumento che useremo. Quel che è successo oggi è che si sono accresciute le modulazioni possibili della nostra esposizione all’altro. A fronte di questa maggiore libertà, di questa disponibilità dello strumento, c’è il rischio che la paura ci domini e che rimaniamo fissati al livello più povero dell’incontro. Sentirsi al sicuro è necessario, ma se ci proteggiamo troppo e non rischiamo, certo non sentiremo le ferite. Ma neppure le carezze. Il mondo delle cyber-relazioni è un’occasione d’oro per comunicare con l’altro, scegliendo le sfumature del nostro ‘consegnarci’, ma può divenire un vicolo cieco. Se evitiamo le pause tra un incontro e l’altro rischiamo di non memorizzare nel nostro corpo le esperienze. Rischiamo di non crescere. Goodman parlava di egotismo a proposito della moda postmoderna di dare la mano all’altro solo per un attimo, per poi magari scrivere un volume intero sulla mano che abbiamo appena stretto. L’assimilazione dei rapporti e la crescita sono inversamente proporzionali  alla velocità degli incontri. Il mondo va forse verso gli avatar. Non è però un destino ineluttabile né un ostacolo insormontabile. Per resistere, per trovarci pronti, per non smarrirci nei dedali della comunicazione ‘strumentale’, manteniamo il fil rouge del cuore. E ripetiamo col poeta, a noi stessi e all’altro, all’altra, senza stancarci: «Non chiedermi nulla. Parlami / parlami in un modo che, anche se fossi sorda, / ti sentirei soltanto con il cuore…» (Pessoa).

*Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine del quotidiano La Sicilia.

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