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Celebriamo, con i due numeri speciali (il 9 e il 10) della nostra rivista annuale, il quarantesimo anniversario del nostro Istituto e i 70 anni dalla nascita della Gestalt Therapy.
Nel numero 9, in particolare, abbiamo ripercorso la nostra storia, il nostro legame con i grandi maestri che ha plasmato le origini del modello e le ricerche che ci hanno condotti a evolverne una nostra interpretazione, una nostra via, che oggi ci consente di parlare di modello GTK.
Condividiamo di seguito un estratto dall’articolo del prof. Antonio Sichera,  “La terapia a servizio della vita. GTK, ermeneutica e Gestalt”.

Era un pomeriggio di primavera di quasi quarant’anni fa. Ghery (che oggi è mia moglie) mi aveva parlato per un anno di questa ‘Gestalt’ di cui stava facendo un’esperienza intensa, entusiasmante. Per questo mi decisi, quel pomeriggio, a partecipare a una ‘due giorni’ dell’Istituto HCC (matrice dell’odierno GTK), dedicata ai sogni. Avevo anche letto un piccolo manifesto in cui si invitava a partecipare chiunque volesse conoscere la Terapia della Gestalt, a quei tempi oggetto misterioso per molti. Ero curioso ma anche prevenuto. I miei rapporti con la psicoanalisi, per me fino ad allora oggetto di lettura e di studio, erano di cordiale diffidenza. Il fatto di diventare oggetto di indagine nelle mani di un medico che mi avrebbe ‘scomposto’ senza spiegarmi mai il come e il perché, ma che poi avrebbe emesso il suo verdetto contro il quale nessun appello era possibile da parte dell’imputato, onestamente non mi entusiasmava. Quei pomeriggi ragusani però mi folgorarono. Intanto perché invece di un setting asettico e medicalizzato mi trovai ad entrare in una grande sala in cui c’erano tante persone che sembravano felici di essere lì. E che erano lì per stare assieme: si lavorava in gruppo! Fu la prima cosa che mi colpì. Non l’algida condizione di uno studio medico, ma la realtà umana di donne e uomini, ragazze e ragazzi che con- dividevano il medesimo spazio, gremito di tappeti e di cuscini, nel quale si disponevano in cerchio, a ‘lavorare’, seduti in posture molto libere, senza scarpe.

Sì, perché al tempo si lasciavano sempre le scarpe all’ingresso della sala, ed era un atto di grande impatto simbolico. Si entrava in uno spazio altro. Scalzarsi era un modo per sentire la differenza, la sacralità giocosa di quel rito. In quella terra non si era padroni di nulla. Non però nel senso del tribunale a cui timorosamente accedi, disarmato e privo di protezione. No. Avvertii subito che i miei compagni di viaggio si scalzavano, quel pomeriggio, come i bambini pronti a correre in spiaggia, vogliosi di un bagno lungo, di un ristoro in cui c’era da mettere in conto l’impegno e anche la fatica del gioco, ma con tutto il piacere connesso a quel rito.

[A. Sichera,  “La terapia a servizio della vita. GTK, ermeneutica e Gestalt”, Rivista GTK 9, 2023]

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