In tempi di emergenza sanitaria, la psicoterapia da campo diventa on-line. L’unico modo di stare vicini e sostenere le persone in questa pandemia è stato attraverso lo schermo di un computer. Il lavoro terapeutico in video non è certamente lo stesso, ma con alcuni accorgimenti può diventare uno strumento di supporto molto prezioso.
Una situazione come questa pone il terapeuta stesso in modalità di contatto che possono diventare un carico psicologico molto pesante. Gli psicoterapeuti hanno strumenti di resilienza e di consapevolezza maggiori di quelli delle altre persone, e questo è certamente un valido aiuto nelle situazioni di difficoltà che li riguardano. Tuttavia, la situazione di emergenza sanitaria ha colpito anche le risorse di chi, come i terapeuti, rappresenta solitamente un supporto per gli altri.
Questo contesto di esperienza comune tra terapeuti e pazienti – ovvero la minaccia del virus, la paura, il senso di precarietà, l’imprevedibilità di una situazione sconosciuta, l’impotenza – rende il lavoro terapeutico più complesso del solito.
Può essere utile operare una differenza tra empatia e identificazione.
In Gestalt l’empatia è sempre relazionale e accade nei tempi e nei modi del contatto tra organismo e ambiente. Mentre l’empatia relazionale è una componente necessaria e fondamentale della relazione terapeutica, l’identificazione è invece una componente ostativa al rapporto di presa in cura tra il terapeuta e il suo paziente. Quando si configura un meccanismo di tipo identificativo, anziché un’empatia relazionale, possiamo parlare di un disturbo della funzione-Personalità del terapeuta. Nell’identificazione infatti il disturbo della funzione-Personalità del terapeuta si manifesta come confluenza rispetto ai bisogni del paziente.
Per la sua natura olistica, fenomenologica e corporea, la terapia della Gestalt ha nella relazione terapeutica gli strumenti per la costituzione di un ground solido e ampio su cui poggiare il proprio intervento terapeutico. Il ground della relazione è un requisito sostanziale per noi gestaltisti, qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Infatti il modo in cui entriamo in relazione con il paziente si nutre di respiri, di presenza, di corpi che ascoltano e accolgono le emozioni. Se questo ground terapeutico non funziona, viene meno per noi non una tecnica, ma l’essenza stessa del nostro essere terapeuti (funzione-Personalità).
La differenza tra empatia relazionale e identificazione, passa attraverso la funzione-Personalità: quando il terapeuta della Gestalt sente venire in figura il meccanismo della identificazione, non porta la sua attenzione sul paziente, ma su di sé. È prima di tutto il suo ground che va ristrutturato: quell’emozione non va scacciata, ma va accolta. Attraverso la profondità del respiro, il terapeuta ascolta le vibrazioni del suo organismo nell’attraversare quelle emozioni. È nel corpo che respira, che si apre, che accoglie, che quelle emozioni trovano spazio e si placano. Così facendo, il terapeuta ascolta la sua funzione-Personalità non più sovrastata da quelle emozioni, ma integrata da esse.
L’ampiezza e la solidità della funzione-Personalità di un terapeuta dipendono dall’ascolto e dall’integrazione delle emozioni, dei vissuti e delle sensazioni corporee nel sé, perché l’io sento(funzione-Es) è sempre in relazione a chi sono io che sento questo.
Scrivo questo articolo dopo aver svolto il secondo colloquio con un medico di rianimazione[1] in modalità on-line. Ho sentito il bisogno di scriverlo per dare una forma strutturata nei pensieri a tutto ciò che è emerso in me in quei colloqui e per il bisogno di rendere comprensibile un carico emotivo che sembrava essere privo di senso.
Quando inizio le sedute in videochiamata con questa paziente, la mia prima sensazione è di essere trascinata insieme a lei in questo mondo di contatti traumatici: mi manca il pre-contatto. Immediatamente mi ritrovo dentro la sala di sub-intensiva insieme a lei, sento che mi manca il fiato, sento la sua e la mia paura, sento una grande impotenza, quella di cui lei mi parla, ma anche la mia di fronte ad un mondo così confuso, frenetico, violento. Sento che la mancanza di un pre-contatto della seduta, mi irrigidisce il corpo: un corpo dimezzato in orizzontale. Le sensazioni sono tutte concentrate nella parte superiore: nei miei occhi sbarrati che guardano il video, nel mio volto preoccupato (la terapia on-line ha la caratteristica di restituirci un feedback immediato del nostro volto di fronte al paziente: infatti, nello schermo sono presenti sia la videata del terapeuta che quella del paziente), nelle spalle pesanti, nelle mani poggiate sul tavolo a corpo morto, nel busto in cui il respiro si è fermato a livello dello sterno. Nella parte inferiore, un corpo vuoto, rigido, freddo, di cui non percepisco la presenza. Sento che tutto il carico emotivo dell’altro mi è arrivato addosso come un’onda anomala. È troppo, è troppo veloce, è troppo potente. Devo necessariamente ricostruire il ground corporeo, ricontattare la mia funzione-Personalità di terapeuta o la paura di diventare io stessa una parte della storia che sto ascoltando prenderà il sopravvento e non mi permetterà di ascoltare i bisogni della mia paziente.
Ho ascoltato queste sensazioni (la paura, l’impotenza, la disperazione) e ne ho visto la specularità ripensando al mio corpo dimezzato: ho avuto l’immagine mentale del mio corpo trasfigurato proprio come ho percepito il corpo della mia paziente.
Il corpo dei sanitari infatti, in questo momento di pandemia, è un corpo che si deve iper-proteggere nella parte superiore: le vie respiratorie, gli occhi, la bocca, le mani che non devono toccare, il respiro che va bloccato perché il respiro porta il virus, contagia l’altro.
Ascoltando le mie sensazioni ho sentito che il mio corpo si era fatto spazio di conoscenza di quella esperienza che stavo raccogliendo dalla mia paziente: un corpo diviso a metà, con un ipersensibilità nella parte alta, un’ iposensibilità nella parte bassa, e con un’ interruzione del respiro che blocca i vissuti a livello della metà del corpo.
Come gestaltista ho imparato non solo ad ascoltare il corpo, ma anche ad attraversare l’esperienza corporea per arrivare all’altro.
Affinché il mio ascolto potesse essere empatia relazionale e non identificazione, affinché la mia funzione-Personalità di terapeuta potesse essere pienamente presente con lei, affinché il mio corpo potesse accogliere i suoi vissuti senza venire sopraffatto da un meccanismo identificativo, ho sentito il bisogno di ristrutturare il mio ground, e di prendermi cura di quel pre-contatto mancante.
Il mio respiro si è fatto profondo, fino alle viscere, l’espirazione lunga e lenta ha soffiato fuori la tensione, i fianchi si sono poggiati sulla poltrona, i piedi hanno cercato il contatto pieno col pavimento, le spalle si sono aperte per accogliere l’energia del respiro. E allora ho sentito che dentro di me si ampliava lo spazio per accogliere la mia paura. Il volto preoccupato si è fatto placida presenza, lo sguardo sbarrato dalla paura, si è fatto sguardo attento e concentrato. Ho visto lo sfondo della sua casa, e là ho portato la nostra attenzione, su quell’alcova di sicurezza e di tranquillità, condividendo insieme per qualche attimo la serenità di questa novità.
Nella terapia on-line può capitare che il paziente ci apra la porta sul suo mondo domestico, ci porti con sé tra le sue cose, nei suoi luoghi: e quei luoghi, ora che sono stati abitati anche da noi in questa condivisione, diventano un confine di contatto, un tra in cui si costituisce il luogo significativo dell’incontro. Prenderci il tempo di curare il pre-contatto, permette di dare discontinuità all’emergenza: di creare uno spazio di sicurezza in cui sperimentare modalità di incontro con se stessi non dettate dai tempi dell’emergenza. Permette di creare una linea di confine tra un dentro l’emergenza (il reparto ospedaliero) e il fuori emergenza (la casa, la terapia, l’intimo, lo spazio del recovery).
Prenderci cura del pre-contatto e portare l’attenzione al ground corporeo sono linee indicative per lavorare nelle emergenze. Quando ci troviamo a lavorare in contesti che mettono sotto stress le nostre abituali risorse, è necessario ritornare al corpo come primo e primordiale ground.
Abitare il nostro corpo di terapeuti, la nostra più intima casa. Il ritorno al corpo è per noi lo spazio del recovery.
E ora che è finita l’emergenza? In che modo torneremo fuori? In che modo ci incontreremo?
La chiusura della fase emergenziale, ci interroga sui modi di rientro alla normalità.
Finalmente possiamo ritornare nelle nostre stanze di terapia. Ma cosa ci portiamo con noi di questa esperienza? La modalità in presenza ci richiede un update della funzione-Personalità con i vissuti che l’esperienza ha lasciato in noi.
Non possiamo chiudere questa esperienza emergenziale senza accogliere le inevitabili trasformazioni che essa porta con sé. E in fondo, una sana funzione personalità è proprio questa: la narrazione aggiornata con le esperienze corporee. La nostra funzione personalità oggi inscrive in sé anche questi vissuti, che in modo del tutto particolare abbiamo condiviso con i nostri pazienti durante il periodo di lockdown.
Il dopo emergenza per un terapeuta della Gestalt, significa quindi ascoltare il vissuto e integrarlo in una narrazione coerente con la funzione-Personalità.
Il ritorno in studio apre molti interrogativi. Ci chiediamo come portare avanti questo lavoro on- line che abbiamo svolto, secondo un adattamento creativo richiesto dalla situazione.
Come ritornare a una relazione terapeutica in presenza? Quella stessa cura che abbiamo posto nelle terapie on-line, è necessario che sia posta ora quando si sposta la terapia dal video alla presenza.
Prendiamoci il tempo e il modo per la cura del pre-contatto: non bisogna dare per scontato questo passaggio, sia per noi terapeuti che per i nostri pazienti.
Torno al mio lavoro in studio con questi pensieri, emozioni, un senso di incertezza, come se mancassero i miei riferimenti. Mi chiedo: e ora come staranno le persone dopo questa assenza? Come gestiremo la distanza fisica? E la terapia con la mascherina? Come possiamo sentirci vicini pur dovendo mantenere una distanza imposta e privandoci dei contatti tra di noi?
Un elemento che mi ha fatto figura del lavoro in emergenza, è che bisogna ricercare il miglior pre-contatto possibile nel qui e ora della situazione.
Nel tornare al lavoro in studio sento emergere questa rinnovata attenzione al pre-contatto: prendere il tempo di ascoltare il mio corpo in un incontro nuovo, in cui è necessario integrare nella relazione terapeutica gli elementi aggiunti (la mascherina, il gel per le mani ad esempio) e gli elementi mancanti (il contatto fisico ad esempio, ma anche la vicinanza tra le sedie). Insomma prendersi cura di come stiamo insieme in questo spazio in cui sono cambiati degli elementi e in cui dobbiamo cercare insieme il modo giusto (sostegno specifico) per compensare ciò che manca e per integrare ciò che abbiamo dovuto inserire.
Questo prenderci cura di noi stessi, come terapeuti, è una funzione di recovery importante che ci permetterà da ora di essere il sostegno psicologico alle persone ma anche al personale sanitario coinvolto nell’emergenza.
Nei prossimi tempi infatti, gli psicologi saranno chiamati a prendersi cura delle ferite lasciate da questa epidemia sanitaria, sia nella popolazione che si è trovata in forte prossimità con la malattia e le sue conseguenze, sia con il personale medico e sanitario che ha lavorato nel fronte caldo dell’emergenza.
In particolare, in ambito sanitario si è configurato ciò che in psicotraumatologia viene chiamata vittimizzazione secondaria. Medici e infermieri sono stati protagonisti di uno scenario inimmaginabile fino a pochi mesi fa.
Purtroppo i tempi e i modi compressi e violenti dell’emergenza, hanno portato a un’esperienza traumatica, sia per i curanti che per i malati[2].
Sono stati sconnessi dalla loro funzione-Personalità (to care) e gettati in una modalità che ha a che fare con la cura di corpi sconnessi dal sé (to cure). Questo è alienante, poiché impedisce la pienezza della funzione-Personalità del curante.
Il perdurare di questa sconnessione emotiva, è disumanizzante (in Gestalt diciamo è una desensibilizzazione patologica) e porta i sanitari a forme acute di DPTS che, se non riconosciute, possono diventare forme croniche.
Come possiamo aiutare i medici e il personale infermieristico a ricostruire il ground che l’esperienza traumatica ha frammentato? Come potremo aiutarli a riappropriarsi di una piena funzione-Personalità?
Credo sia necessario, proprio come abbiamo fatto su di noi, creare uno spazio di recovery del personale di cura, uno spazio in cui sostenere le persone nel ricostruire una narrazione dell’esperienza e recuperare quei tempi e modi interrotti nell’emergenza. Quelle emozioni e vissuti bloccati nei corpi delle persone devono trovare, attraverso la relazione terapeutica, la strada per riemergere ed essere integrati nella storia incarnata della persona.
Questo è il prezioso lavoro di ricucitura della psicoterapia della Gestalt: mettere corpo, parole, relazione alla trama ferita della storia delle persone.
Federica Calandra,
Psicologa e Psicoterapeuta
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[1] Esperienza di terapia svolta tramite video colloqui con un medico di terapia intensiva Covid-19. Il percorso di terapia era cominciato circa un anno fa, sempre in modalità telematica, perché la paziente si trovava all’estero. Da pochi mesi era tornata in Italia e avevamo cominciato il lavoro in presenza in studio. L’emergenza sanitaria ha necessariamente riportato il percorso terapeutico alla modalità on line.
[2]I ricoveri in reparti di terapia sub-intensiva e intensiva Covid-19 , sono caratterizzati da altissimi stressor psicologici: isolamento dai propri familiari, i caschi respiratori che provocano sensazioni di soffocamento e diversi attacchi di panico, il personale sanitario che è coperto dai dpi che non permettono o limitano il contatto umano, le metodiche invasive di intubazione, la prossimità con altri pazienti che improvvisamente si aggravano, alcuni vengono intubati e sedati, altri purtroppo non ce la fanno e decedono. Questo contesto fortemente alienante ed emotivamente impressionante, ha provocato in molte persone (senza alcun pregresso nella storia clinica), scompensi di tipo psichiatrico (deliri e psicosi acute) con stati di agitazione psicomotoria e comportamenti aggressivi e/o autolesivi che hanno richiesto l’intervento della farmacoterapia antipsicotica ma in alcuni casi anche il contenimento e la sedazione.