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Nella relazione terapeutica, per definizione, è il terapeuta a dirigere le danze, perché nel momento in cui il paziente formula una richiesta di aiuto si pone in una posizione down. Ma nei pazienti gravi non c’è consapevolezza di “malattia”, non viene espresso un bisogno d’aiuto, l’incontro è vissuto con terrore e la danza si tramuta in fuga dalla relazione. 
Nella terapia con i pazienti gravi il tempo si dilata inverosimilmente ed il ciclo di contatto si cristallizza nella confluenza. Il linguaggio di questi pazienti, semplice ed immediato, per molti versi infantile, veicola l’angoscia ancestrale di morte imminente. In tale contesto emotivo-esistenziale non è visibile, nel loro campo ottico, né il terapeuta né il gruppo né lo spazio relazionale. È il loro bisogno emergente allora che dirige le danze. 
Durante una terapia di gruppo con pazienti gravi, Corrado interviene mentre sta parlando Michele. Come trainer del gruppo lo invito ad aspettare che Michele finisca il suo intervento, ma neanche due secondi dopo Corrado riprende insistentemente e, con voce concitata, urla il suo bisogno immediato di essere ascoltato. Allora chiedo a Michele se cortesemente è disposto a dare spazio a Corrado che, però, non può più attendere e, senza aspettare la risposta, si dispone in piedi al centro del cerchio del gruppo terapeutico. 
“Dottoressa – chiede affannato, con sguardo terrorizzato – io voglio sapere subito se mi scorre il sangue nelle vene! Sono tutto congelato dentro e se il mio sangue non scorre più, allora io sono morto”. E grida aiuto e supplica gli infermieri di tagliargli la pelle per poter vedere il suo sangue. 
Nonostante il crescendo di toni vocali e l’agitazione psicomotoria di Corrado, il gruppo non si scompone, circa trenta persone lo ascoltano in un silenzio di compenetrazione e grande contenimento per la sua angoscia. Solo un infermiere, preoccupato, mi fa cenno da lontano se è il caso di preparare una fiala di sedativo. La sua preoccupazione del resto è comprensibile considerate le possenti dimensioni corporee di Corrado. 
Una pausa nel fiume di parole di Corrado mi consente di fermarlo con gli occhi e di chiamarlo per nome mentre tento di riportarlo nella relazione terapeutica. Mi guarda, e con voce sommessa mi chiede: “Dottoressa ma lei lo sente se il mio cuore batte o è fermo?”. Mi alzo, mi avvicino a lui e metto la mia mano sul suo cuore. “E come se batte il tuo cuore – esclamo – i toni cardiaci sono forti e possenti, e segnano il ritmo della vita”. 
Un atto magico? No, un momento relazionale magico, dove il bisogno di Corrado, la funzione Es del suo Sé, si incontra al confine di contatto con l’ambiente. 
Corrado rasserenato sorride e torna a sedere al suo posto. Michele riprende la parola ed il processo di gruppo prosegue. Ma prima di chiudere l’incontro riporto l’attenzione del gruppo su Corrado, e gli chiedo come sta. Corrado risponde con la bellezza espressiva tipica del linguaggio poetico: “Sento caldo: il calore della sua mano sul mio cuore ha riscaldato il mio sangue congelato”. 
Se è il bisogno emergente nella relazione che dirige la danza dell’incontro non esiste “conflitto” di potere tra paziente e terapeuta: il potere è della relazione
Paola Argentino
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