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Il coronavirus è l’urlo della Terra, di «nostra Madre Terra, la quale ci sostenta e ci governa», che ci impone di cambiare stile di vita per avere ancora un futuro. È un imperativo antropologico che coinvolge tutti e in primo luogo la politica e l’educazione. Includere i deboli, i piccoli, gli esclusi, gli scartati, significherà includere pure i microsistemi e gli ecosistemi.

Oggi il quotidiano La Sicilia riporta nuovamente una riflessione del nostro direttore Giovanni Salonia.

Ve lo proponiamo integralmente anche qui.

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La fila di camion dell’esercito con i troppi morti e i tanti canti che risuonano dai balconi diventati piazze.
Da sempre gli umani sono costretti a piangere la morte e – contestualmente – cantare la vita. Al fronte, nonostante morti e feriti,  bisognava ‘andare avanti’ cantando la voglia di vincere. E come non ricordare il sublime «lasciammo il campo cantando» di Etty Hillesum?
Da sempre ogni secolo paga il prezzo alto di molte morti precoci (nelle guerre, nelle pesti, nelle droghe).
Da sempre nei contesti di pericolo l’individualità scompare nel ‘noi’.
Un morto, al di là della sua biografia e dei suoi legami,  diventa un numero, diventa il ‘milite ignoto’.
Da sempre nelle calamità si è costretti a morire da soli.

Ma il coronavirus non si può leggere solo sulla scorta di ciò che da sempre è accaduto. Non può essere compreso con le categorie della guerra o della peste. Il coronavirus day è un evento epocale inedito. Richiede un cambiamento radicale di chiavi di lettura.

Intanto non è una guerra. E questo è un evento da celebrare. Malgrado i tanti segnali contrari, l’apprendimento umano circa l’inutilità della guerra come strumento di soluzione dei conflitti va avanti, grazie anche alla paura del conflitto nucleare definitivamente distruttivo. Da settantacinque anni l’Occidente ha interpretato questa consapevolezza in maniera subdola, limitandosi alle guerre ‘fredde’, alle guerre ‘altrove’, alla guerra ‘economica’, raggiungendo quella che Polanyi chiama una ‘pace pragmatica’: un accordo tra i più forti con relativa esclusione dei deboli dal circuito del benessere. L’11 settembre 2001 gli ‘scartati’ hanno dato però un segno forte della loro presenza, con un attacco cruento e invisibile al potere occidentale, mentre dall’ineguaglianza crudele e strutturale tra i popoli è emerso prepotente il fenomeno delle migrazioni. Un attacco disperato al benessere dei pochi. Si tratta di drammatici fenomeni planetari a cui il vissuto dei nostri giorni fornisce una chiave di lettura globale e innovativa.

Ci troviamo infatti all’improvviso dentro un evento tragico e inedito: la pandemia. L’avevamo dimenticato. Ce lo ha ricordato in modo puntuale Salvo Adorno: «I microbi, […] nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime… È la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo».  Una guerra, quella contro i microbi, che da sempre ha prodotto un fenomeno ambivalente: unisce e separa gli umani. Non solo perché obiettivo ultimo rimane sempre, al di là del ‘noi’ dei canti dai balconi, salvare sé stessi (e i propri cari), ma ancor di più perché i microbi trasformano ognuno di noi in vittima e carnefice al contempo. Siamo uniti ma ognuno può diventare per l’altro ‘inferno’ e morte.

La novitas assoluta del coronavirus è rivelarci che il vero pericolo in questa pandemia non è il coronavirus ma siamo noi. Non solo perché possiamo diventare portatori di morte, ma perché, più profondamente, non abbiamo rispettato l’ecosistema. «La pandemia da coronavirus e il riscaldamento globale sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente diseguale per condizioni socio-economiche» (S. Adorno).

Oggi non si tratta come nelle guerre di trovare una nuova ricomposizione dei conflitti nazionali, né come nella peste di sperare soltanto di trovare il farmaco. È in gioco non solo il presente, ma il futuro. Altri ‘vinti’ della storia (il microsistema, l’ambiente in tutte le sue articolazioni) stanno urlando la loro protesta e il loro bisogno di rivincita. Dobbiamo ripensare tutto partendo dal principio che il futuro degli umani è intimamente connesso con il futuro dell’ambiente. Abbiamo bisogno di un know how antropologico. Come per ogni malattia,  il coronavirus è una ferita, pure mortale, che attraverso lacrime e sangue ci guarisce e donando a noi e ai nostri figli un futuro (Jonas).

Il coronavirus è l’urlo della Terra, di «nostra Madre Terra, la quale ci sostenta e ci governa», che ci impone di cambiare stile di vita per avere ancora un futuro. È un imperativo antropologico che coinvolge tutti e in primo luogo la politica e l’educazione. Includere i deboli, i piccoli, gli esclusi, gli scartati, significherà includere pure i microsistemi e gli ecosistemi.

Mantenendo però una grande fiducia nelle potenti risorse dell’umano. Il coronavirus ha portato alla luce infatti quella che l’Arcivescovo di Palermo don Corrado Lorefice ha chiamato «santità laica». Un forma di eroismo collettivo e non individuale, senza appartenenze, sulla base di un’unica fede: prendersi cura del fratello.
Ciò che ci fa umani è un femore curato e guarito, diceva Margareth Mead: il prendersi cura.

Ecco la lectio magistralis del coronavirus: una contrazione dello spazio e una dilatazione del tempo che ci consentiranno forse di ridurre il danno del presente e di dare spazio al futuro.
La vita è minacciata, l’emergenza deflagra, ma possiamo qui e ora prendere consapevolezza di una emergenza antropologica – ambientale, migratoria e sanitaria – alla quale non si possono dare risposte vecchie. Siamo chiamati tutti a dare un contributo: i singoli, la politica, l’educazione, l’economia. Solo nel ritrovarci umani, connessi tra di noi e con il creato, parafrasando Hikmet potremo continuare a cantare: «gli abbracci  più belli sono quelli che ci daremo… il bacio più bello deve ancora arrivare».

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