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Anni fa, in un incontro con alcune ragazze che vivevano in una Casa Famiglia, mi trovai a discutere della generosità delle suore che gestivano l’istituto e della gratitudine richiesta di conseguenza alle ragazze per tale servizio. Dai loro sguardi intuii di aver commesso una gaffe: ascoltandole, infatti, mi resi conto che, date le storie familiari da cui uscivano, essere grate era in quel momento della loro vita troppo pesante. Lo avrebbero vissuto come un ricatto o una condizione di inferiorità (sottolinearono subito infatti, quasi d’istinto, l’importanza dei contributi per il loro soggiorno che venivano dallo Stato). Quella che si percepisce come ingratitudine è a volte solo una modalità maldestra di sottrarsi ad un legame fusionale che crea dipendenza. Solo quando si è autonomi e ci si libera dalla voglia del possesso, la gratitudine matura in profondità, diventando genuina esperienza di ‘rinascita’ per chi la dà e per chi la riceve. L’apice della gratitudine è cantare la vita, il dono a cui nessuno ha diritto e che si può ricevere solo gratuitamente. Ogni canto di gratitudine separa e unisce. Separa mantenendo la vicinanza e unisce mantenendo la distanza. Ricongiunge il passato al presente, guarisce le ferite e apre al compito. Fa rinascere la relazione e l’appartenenza. Dire «grazie» è riconoscere l’altro nella sua dignità e nel suo dono, per quello che si è ricevuto senza sentirsi inferiori, e per quello che non si è ricevuto senza risentimento.

Giovanni Salonia, Sulla Felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Ed. Il Pozzo di Giacobbe, pp. 93-94


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