di Giovanni Salonia*
I dettagli fanno la differenza. Nei dettagli – si diceva una volta – si nasconde Dio (o il diavolo), perché in essi si nasconde la verità e diventa visibile la profondità. Anche le nostre relazioni si concretizzano e si qualificano nei dettagli. Papa Francesco, esperto di umanità, nei suoi discorsi sottolinea la centralità della concretezza. E precisa come nelle relazioni umane assumono valore e significatività tre parole. «Vorrei ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave!». Tre piccole parole che esprimono il profondo del cuore e costruiscono relazioni positive e nutrienti.
“Grazie”. Vivere è ringraziare, nella vita abbiamo sempre da ringraziare. Già il nascere avviene nella gratitudine verso una donna che rischia la vita per darci la vita e di un uomo che si fa ‘prigioniero’ (Marquez) di un bambino. ‘Grazie’ è una delle parole più belle e sonore in assoluto, incisiva e graffiante per la sua matrice gutturale. Per qualcuno imprescindibile strumento di relazione col prossimo, per altri conquista difficile. Dire grazie è in fin dei conti una vera conquista emotiva, un dialogo prima con noi stessi, poi col mondo attorno al nostro. Quanto a gratitudine siamo stitici. Soprattutto con noi stessi. Eppure è una delle parole che impariamo sin da piccoli, certamente per la preoccupazione sociale (ed educata) che guida i genitori: “Hai ringraziato?”. Molto presto però la frenesia e il distacco emotivo di cui a volte siamo vittime finiscono per farci dimenticare che nella vita nulla é scontato.
Ringraziare la vita lungo la vita diventa a volte un compito arduo ma rimane sempre una esperienza che, anche nelle situazioni limite, ha il potere di rigenerare energie e vitalità. Certo il ringraziare può non essere del tutto genuino. A volte può suonare “eccessivo” e precoce, e rimandare ad atteggiamenti di sottomissione, di mitizzazione dell’altro. Il grazie pieno e genuino genera quel calore proprio della reciprocità che si vive nel dare e nel ricevere perché tutti nella stessa barca, tutti gettati – direbbe il filosofo – nella sfida del vivere e del vivere con senso e con pienezza.
A proposito, grazie a te lettore, che leggendomi mi doni il tuo tempo, la tua stima, il tuo interesse.
“Permesso?”. Una seconda parola che crea la magia della relazione. È il dettaglio in cui si concretizza la consapevolezza della sacralità dell’altro. La raffinata accortezza nel non voler risultare invadenti in un gesto, in uno slancio, in un semplice passo, di fronte ad una porta che aprendosi ci comunica accoglienza, si concretizza in una espressione lì per lì dal sapore gerarchico (chiedo il permesso per fare qualcosa). In realtà è tutta eleganza. Permettere qualcosa non é solo potere che avvenga qualcosa, è innanzitutto fiducia, slancio approvato, calorosa accoglienza. È il riconoscimento che l’altro ha una sua interiorità ed è anche in ascolto di una propria intima musica. Per entrare nel suo mondo devo chiedere il permesso perché interrompo comunque il suo ritmo. Adam, quattordici anni, si presentava disadattato, chiuso in sé stesso, continuamente arrabbiato, eppure cominciò ad uscire dalla sua fortezza e a gustare la relazione quando i genitori, avendo compreso l’importanza della sua musica interiore, prima di fargli domande o di interromperlo gli chiedevano permesso, aspettando i tempi necessari per lui per entrare in sintonia con il ritmo dei suoi genitori. Una relazione nutre e fa crescere se rispetta la diversità dei ritmi che vibrano nei corpi. Accostarsi al mondo dell’altro con l’umiltà di chi chiede il permesso esprime l’atteggiamento nobile di chi onora la dignità dell’altro e ne riconosce il diritto di protagonista in ogni relazione.
“Scusa!”. Forse un’altra parola che ci viene chiesto di imparare da bambini, con quel sottile ma prepotente velo di imposizione ai fini educativi (“Chiedi scusa a tuo fratello!”) che probabilmente appesantisce la bellezza dello slancio e la musicalità del termine. Scusa è perdonare innanzitutto se stessi, guarire una mancanza, un errore. Anche quello voluto. Scusa è accettare chi si abbandona alla bellezza di questa parola, è umiltà profonda nell’accogliere la presa di coscienza dell’altro. Spogliarsi di orgoglio e accettare le scuse di un familiare, di un amico, è forse più complicato che donarle.
Rispetto per gli altri, e in fin dei conti per se stessi, é riconoscere un errore, un torto, tornare sui propri passi consolidando e accettando nella propria vita la parola scusa. Vissuta spesso come indigesta sconfitta interiore, in realtà concedersi e maturare questa parola non è che arricchimento, profondo e drasticamente umano. Strada più complicata del grazie, un po’ più tortuosa del permesso, chiedere scusa è difatti umana accettazione dei propri limiti. rivela la grandezza di chi sa riconoscerli e riconoscere l’eventuale torto compiuto nei confronti dell’altro. Quanti discorsi inutili, quante strategie vengono messe in atto, a volte, pur di non pronunciare questa parola semplici e potente: scusami! Ci vuole una serena autostima per riconoscere i propri errori. Ma anche con questa “parolina” non sempre è facile: non si chiede scusa perché si teme di diventare più deboli e che l’altro diventi troppo forte o non si chiede scusa perché convinti che sia sempre l’altro il responsabile dei conflitti. Chieder scusa è riconoscere che per me l’altro, la relazione è importante. Le relazioni, si sa, non sopportano il braccio di ferro. Nelle relazioni voler vincere è la strada della sconfitta. Non c’è ricchezza relazionale se non nella logica del chiedere scusa. È vero anche ci sono persone che hanno difficoltà ad accettare le scuse perché temono che le scusa siano un modo di placare la loro rabbia prima di poter esprimere fino in fondo la loro ferita. La richiesta di scusa, se genuina, sa spettare anche il ritmo dell’altro. Siamo umani e fa parte della condizione umana sbagliare, far del male. Ma gli umani hanno la capacità di riparare questo limite, riconoscendolo di fronte a se stessi e all’altro ferito.
Grazie, permesso, scusami: in un mondo ideale nutrito di grazie, permesso e scusa si potrebbe respirare la freschezza della relazione con l’altro, la semplicità delle azioni, il buon sapore dell’umiltà del nostro essere profondamente umani. Dopotutto le fragilità che ci circondano (tutte umane anch’esse) si nutrono della difficoltà che subiamo nell’attraversare, accettare e poi donare ognuno di questi passi.
E se fossero queste tre parole il segreto semplice scritto nella grammatica della relazione che nutre nella reciprocità?
Grazie, Francesco, per avercelo ricordato.
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*Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia.