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 Il primo impatto con F. è violentissimo: mi trasmette una forte angoscia, immagino quanta ne abbia lui, pertanto riduco il tempo dell’incontro terapeutico, e questo allenta notevolmente lo stress di entrambi. Mi dice che vuole sapere perché ha tremore alla gamba, è venuto per questo disturbo, fra poche settimane partirà per un mese, andrà in viaggio, e non vuole avere questo fastidio. Già al secondo incontro non ha più il tremore e con estrema lucidità e precisione racconta dell’episodio di aggressione alla madre, avvenuto
5 anni prima, per il quale è stato al manicomio criminale. «Ero esasperato, non volevo ucciderla, ma volevo solo fermarla, potevo ucciderla, ma volevo solo fermarla…». «Come sempre mi sento letto nel pensiero». Poi, ridendo: «Da quando mi hanno messo le telecamere tutti leggono nei miei pensieri, è terribile e quando mi accorgo di essere letto sono costretto a fare pensieri di cui mi vergogno» (è delirante durante la seduta). […] Nel primo anno il mio vissuto oscillava dalla paura di lui, così distruttivo, alla fermezza del mio ruolo non distruttivo; dall’ostilità per lui, così squalificante e onnipotente, all’impotenza-potente di accettare il limite della mia possibilità terapeutica. Fu molto importante per me sentire il bisogno di un ‘terzo’: il mio supervisore che dallo sfondo, con la sua presenza sempre disponibile e accogliente mi ha fatta sentire saldamente ancorata e sostenuta nell’attraversare tutto il divenire di questa relazione.

Valeria Conte, Il lavoro con un paziente seriamente disturbato: l’evoluzione di una relazione terapeutica in G. Salonia,V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg. 97-98


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