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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia

 

di Giovanni Salonia

Ripartiamo dal mito. Pandora viene mandata sulla Terra da Zeus, per vendetta contro Prometeo. Il vaso che porta in dono contiene in verità i mali della vita dell’uomo. Ma Pandora non lo sa e lo scoperchia. Sul fondo rimane solo Speranza, che non fa in tempo ad uscire prima che lo scrigno venga richiuso. Il mondo è sconvolto, inaridito. Eppure, appena Speranza esce dal vaso, la vita riprende. Da ora in poi i mali abiteranno il mondo, ma sarà all’opera ormai anche il loro estremo antidoto: la speranza, appunto. Il senso del mito è chiaro: finché c’è speranza c’è vita. Il detto che banalmente ci ripetiamo (finché c’è vita c’è speranza) è un miope ribaltamento della sapienza antica. Perché non possiamo vivere senza sperare. Sperare è necessario come respirare. Ed è proprio la qualità della nostra speranza che certifica la qualità della nostra esistenza. Non per nulla, quando diciamo ‘ritornare a sperare’ vogliamo dire che nel nostro corpo sta tornando a rifluire il senso della vita, della gioia di vivere. 

Per questo si può essere ancora più radicali: non possiamo non sperare. Anche chi è disperato e agisce facendosi del male in realtà spera di star meglio. Attendere il meglio, in qualunque forma lo si declini, è negli umani un sentimento inespugnabile. L’unico tempo che viviamo infatti – l’unico a noi disponibile – è il tempo della speranza. È lo spazio tra il now (l’adesso) e il next (il prossimo passo). Se chi ci sta parlando per un attimo interrompe il flusso delle sue parole, noi restiamo in attesa della parola non detta. Tu che stai leggendo queste parole (grazie!) sei in attesa della prossima parola… Ascoltare, leggere, richiedono il collocarsi nella sottile pausa tra la parola ascoltata e quella in arrivo. 

Attendiamo sempre. E cosa attendiamo? Che le cose belle continuino, che quelle tristi se ne vadano, che la vita continui e sia propizia con noi. È una meraviglia questa passione indomita dell’attesa/speranza negli umani. Secondo Peguy, lo stesso Dio ne resta stupito: “Che vedano come vanno le cose oggi e che credano che andrà meglio domattina. / Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia. / E io stesso ne sono stupito. / La Speranza è una bambina da nulla. / Eppure è questa bambina che traverserà i mondi. / Questa bambina da nulla. / Lei sola, portando le altre [la fede e la carità], che traverserà i mondi compiuti”.

Motore della nostra esistenza, ossigeno dei nostri sogni, elemento imprescindibile dei nostri progetti, la speranza guida i nostri percorsi: quelli della gioia e quelli del dolore, quelli che abbiamo scelto e quelli che ci siamo ritrovati a percorrere al di là di noi. È energia pura dentro di noi. Luce costante e fioca che scalda la nostra proiezione verso il futuro, luce che difendiamo perché è difesa di noi stessi e che nessuno osa toccare anche ad un passo dalla morte. 

O forse la speranza è faro, luce che ritorna. Dopo ogni buio. Forte della sua forza indomita, perché non diventi la morte l’unica prospettiva, l’unico desiderio degli esseri. E il cinismo non prevalga. “Finché c’è morte c’è speranza”, arriva a dire Tomasi di Lampedusa, sapendo che la disperazione è sempre in agguato nelle vicende della vita. Che è lei la grande tentazione: Eppure, “la mancanza di speranza è la cosa più insopportabile per i bisogni umani” (Bloch). Coltivare la speranza diventa il grande compito della vita assegnato ad ognuno di noi. Un compito personale e collettivo. 

La speranza infatti non è vuoto ottimismo (‘vedere il bicchiere mezzo pieno’ o ‘pensare positivo’), né è ricerca di un happy end hollywoodiano. Coltivarla coincide con una continua e appassionata ricerca del possibile, del ‘non-ancora’ che è dentro ogni esistenza. Perché non c’è esistenza, fino alla fine, che non sia aperta all’imprevedibile. Ma bisogna avere pazienza: 

Maturare come un albero
che non forza i suoi succhi
e tranquillo se ne sta nelle tempeste
di primavera, e non teme che non possa arrivare l’estate.
Eccome se arriva!
Ma arriva soltanto per chi è paziente
e vive come se davanti avesse l’eternità,
spensierato, tranquillo e aperto…
Bisogna avere pazienza
verso le irresolutezze del cuore
e cercare di amare le domande stesse
come stanze chiuse a chiave e come libri
che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.
Si tratta di vivere ogni cosa.
Quando si vivono le domande,
forse, piano piano, si finisce,
senza accorgersene,
col vivere dentro alle risposte
celate in un giorno che non sappiamo.
Rainer Maria Rilke

La pazienza di cui parla il poeta accoglie e supera la saggezza sicula del ‘caliti iuncu ca passa a china’ e la trasforma nella consapevolezza che dentro ogni ‘china’, dentro ogni piena del fiume che sembra travolgerci, accade una germinazione. Perché il nuovo nasce dal caos, dallo squilibrio. “A volte il solo modo / per non morire / è raccogliere le forze e farsi fiore” (Cappello). Per farsi fiore di fronte alla morte bisogna affrontare a viso aperto il dolore, il suo urlo. E perché esso diventi speranza deve incontrare un compagno di viaggio che lo accolga e lo faccia fiorire. Nell’assumere gratuitamente il dolore degli altri fiorisce il miracolo della speranza. La relazione è il suo grembo. Solo chi ha attraversato la notte della disperazione e ha assistito, con gratitudine, al rinascere dell’alba nel proprio cuore – forse proprio cinque minuti dopo aver perso la speranza – potrà avere il coraggio (e il fiuto) di accogliere la disperazione altrui: quella violenta e quella silente, quella legittima e quella illegittima, quella che viene dal bene e quella che viene dal male. “La maggior parte delle cose importanti nel mondo sono state compiute da persone che hanno continuato a provare quando sembrava che non ci fosse alcuna speranza” (Carnegie). Che hanno ascoltato la musica della speranza nel fondo del cuore. Che non si sono lasciate strappare la speranza.

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