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Rivista versione ebook € 18

Giovanni Turra

Rivista GTK n. 07

Nel giugno 2011, i colleghi Greet Cassiers, Ernst Knijff e Frans Meulmesteer, psicoterapeuti belgi e olandesi, furono contattati dallo psicologo nepalese Shambar Thapa, con la richiesta di supportarlo nella costruzione di un istituto di psicoterapia a Kathmandu, in Nepal[1]. L’istituto avrebbe dovuto fornire psicoterapia e counseling nella regione, insieme a un programma di formazione sulla psicoterapia della Gestalt, secondo gli standard internazionali dell’EAGT. I potenziali partecipanti avrebbero dovuto essere psicologi e sociologi che lavoravano nella cura di bambini, rifugiati e vittime di abusi sessuali e torture.
I tre decisero quindi di andare in Nepal nel luglio 2011 con tre obiettivi principali: avere una migliore comprensione della situazione dei servizi per la salute mentale, della cultura e del clima socio-politico-economico in Nepal; fornire un seminario introduttivo di due giorni sull’approccio gestaltico per coloro che erano interessati a seguire il programma di formazione quadriennale; esplorare la motivazione, i bisogni e le competenze degli psicologi e degli altri professionisti che volevano essere coinvolti nella creazione dell’istituto. E, naturalmente, esplorare le proprie motivazioni a dare inizio a tale esperienza. Rimasero in Nepal circa tre settimane, lavorando sodo per costruire la struttura di base per l’organizzazione e il programma di formazione.
Nell’aprile 2012, i tre colleghi iniziarono il programma con diciotto studenti e posero le basi per l’Himalayan Pathway Psychology Institute, oggi rinominato “Gestalt Institute Nepal”. Quasi sei anni dopo, nel marzo 2018, il primo gruppo di allievi ha completato la formazione, e sono iniziati altri tre gruppi. Nel 2017 i tre colleghi fondatori hanno esteso la squadra principale di trainers, accogliendo Beatrix Wimmer dall’Austria (attuale presidente dell’EAGT) e il sottoscritto, didatta dell’Istituto GTK della sede di Venezia.
Il Gestalt Institute Nepal è oggi diventato una casa professionale, dove allievi e professionisti possono trovare conoscenza, formazione, esperienza e sostegno.
Io e gli altri 4 colleghi occidentali siamo coinvolti come fondatori e formatori del programma di formazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt. Offriamo non solo training, ma anche supervisione, conferenze e workshops o seminari più brevi per scuole, college e università. Stiamo anche formando i primi allievi didatti nepalesi a diventare essi stessi trainer locali. Dal 2013 abbiamo un nuovo coordinatore nepalese, Minakshi Rana, che ha preso il posto di Shambar Thapa, nel frattempo emigrato negli Stati Uniti.
Lavoriamo anche a stretto contatto con le iniziative locali e con organizzazioni come il centro di counseling per i gravi ustionati, un centro per i giovani con autismo, un rifugio per i bambini di strada e la Transcultural Psychosocial Organization Nepal (TPO Nepal). Quest’ultima è una delle principali organizzazioni psicosociali del Nepal, istituita nel 2005 con l’obiettivo di promuovere il benessere psicosociale e la salute mentale di bambini e famiglie in aree colpite da conflitti e in altre comunità caratterizzate da particolari fragilità. Alcuni dei nostri allievi lavorano lì come psicologi. Accanto a queste organizzazioni, collaboriamo con molti altri progetti psicosociali in aree remote, e i nostri studenti sono direttamente coinvolti nel lavoro di comunità, in particolare nella regione di Sindhupalchok.
Il Nepal è un paese a due facce: da un lato è un paese bellissimo con persone estremamente gentili, dolci, accoglienti e amichevoli; dall’altro è un paese come tanti, dove la corruzione fa parte della vita quotidiana, la povertà è estesa, la violenza presente comunque in varie forme. Un paese dove la globalizzazione economica e culturale con lo stile di vita occidentale liberale hanno avuto un effetto devastante, ampliando disparità tra le città e le zone rurali e montane e tra i ceti sociali.
Il paese inoltre non si è davvero ripreso dai terremoti che lo hanno martoriato nel 2015. A causa dell’enorme corruzione, molti dei soldi che sono stati donati da tutto il mondo sono scomparsi e non hanno mai raggiunto le vittime. Tuttavia, è stato fantastico vedere come gruppi di giovani hanno preso l’iniziativa di andare nelle aree più colpite per aiutare a ricostruire villaggi e scuole. Molti sono stati coinvolti in counseling traumatico in aree remote del Nepal, dove il danno e la sofferenza erano enormi.
La situazione della salute mentale è ciò che ci motiva a creare e sostenere questo progetto. Siamo rimasti scioccati dalla scarsa presenza di servizi per la salute mentale in Nepal e da quanto sia difficile per le persone che hanno bisogno di counseling e psicoterapia ottenere l’aiuto di cui necessitano. È comunque ancora molto presente, socialmente riconosciuto e utilizzato un sistema tradizionale di cura del disagio mentale, che, in quanto occidentali, rispettiamo e tentiamo di conoscere (sciamani, guru, religiosi hindu, stregoneria, ecc.). Tendenzialmente, la credenza locale, legata alle leggi karmiche, spiega i problemi mentali come derivanti da errori o comportamenti sbagliati in questa vita o in vite precedenti.
Psicologi, operatori psicosociali e counselor in Nepal svolgono un lavoro vitale e difficile, spesso prendendosi cura di bambini vulnerabili, rifugiati e vittime di torture sopravvissuti al conflitto civile, ma hanno scarso sostegno e spesso una carente preparazione professionale. Hanno bisogno e diritto a un solido livello di istruzione e supporto professionale. Le esperienze passate mostrano quanto sia importante per i lavoratori di quest’area psicosociale e psicoterapeutica avere un riferimento professionale, un istituto dove potersi ritrovare, formare, ottenere supervisione e sostegno.
La partecipazione degli allievi al corso è spesso problematica, poiché arrivano da diverse parti del paese e devono affrontare viaggi disagevoli e spese impegnative, lasciando le proprie famiglie per giorni (i corsi sono intensivi e ogni modulo è di cinque giorni pieni di lezioni: questo per permettere a tutti, formatori e allievi, di risparmiare tempo), ecc. La maggior parte dei nostri allievi – in particolare le donne – si alza alle quattro del mattino per preparare i pasti, pulire la casa e portare i bambini a scuola, prima di intraprendere un’ora e mezza di viaggio, a volte a piedi, per arrivare al corso.
L’obiettivo finale di questo progetto è stato fin dall’inizio, e lo è tutt’oggi, quello di istituire un istituto di Gestalt Therapy indipendente, autosufficiente, che riunisca psicologi, counselor e didatti locali, che possano fornire psicoterapia, counseling e formazione per gli allievi nepalesi e per la società tutta.
Nel corso degli anni ci siamo accorti di come questo incontro tra formatori europei e allievi nepalesi sia fecondo di scambi e apprendimenti. Questi riguardano certamente l’incontro tra una ‘figura’ occidentale come la psicoterapia, sorta e sviluppatasi in società occidentali per rispondere ai disagi che in tali società sono emersi nelle diverse fasi storiche, e uno ‘sfondo’ orientale, come quello nepalese, caratterizzato da un forte senso religioso e comunitario che per molti aspetti si mantiene inalterato da secoli.
Non poche sono state le situazioni in cui abbiamo avuto il dubbio di rischiare di compiere una sorta di ‘colonialismo culturale’. Ciò che ci ha guidato sono stati alcuni elementi fondanti: la richiesta la richiesta di sostegno in termini formativi ricevuta dai colleghi nepalesi; l’ascolto e l’atteggiamento non giudicante rispetto a pratiche sociali e comunitarie molto distanti dalla nostra cultura (ma a volte ritrovabili nelle nostre società contadine tradizionali); un atteggiamento di costante dialogo (affascinanti e illuminanti alcuni seminari da noi facilitati in cui abbiamo coinvolto gli allievi nella narrazione dei molteplici rituali comunitari di cui è costellata la loro crescita e la loro vita in generale); la costante messa in gioco e in discussione dei nostri preconcetti (se non pregiudizi) rispetto a ruoli e funzioni sociali di uomini, donne, bambini, adulti, anziani, famiglie, gruppi professionali, ecc.; la comprensione del sistema delle caste (che, seppure fuorilegge, esiste nei fatti nelle pratiche di scambio sociale) e delle numerosissime etnie; la valorizzazione della loro lingua madre (il training è in inglese, lingua che molti giovani nepalesi conoscono bene e imparano a scuola, ma a volte li invitiamo a parlare la propria lingua durante simulate, role-play, triplette, ecc.).
È interessante, per fare un esempio, notare come i modelli di psicologia evolutiva occidentale male si adattino ad una cultura orientale come quella nepalese: il nostro modello lineare e progressivo (spesso anche rappresentato da una scala o una linea retta in ascesa), che si evolve dall’infanzia all’adultità, progredendo dalla simbiosi madre-bambino e dal triangolo primario fino al raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza, non è in fondo il loro modello. Per la cultura nepalese, la vita, che inizia prima della nascita e prosegue oltre la morte (il defunto infatti, diviene ‘antenato’ e la famiglia mantiene un rapporto vivo e nutriente con lui, attraverso ritualità fondate sul rispetto e la venerazione), ha una modalità circolare e ricorsiva, ed è tale sia per l’individuo che per la famiglia e la comunità. Per i nepalesi, indipendenza e autonomia, totem sacri dell’Occidente, corrispondono spesso a solitudine, isolamento e maggiore vulnerabilità per chiunque. Ecco quindi che la cultura nepalese, sia hindu che buddhista, cristiana o animista, tiene assieme le istanze della vita comunitaria e quelle dell’individuo, il Noi come l’Io (la Moksha, ovvero il Nirvana, è infatti raggiunta solo dall’individuo che, anche attraverso l’espletazione dei suoi doveri nei confronti della famiglia e della comunità, potrà dedicarsi in età anziana alla meditazione e alla preghiera in vista della propria liberazione dal circolo delle rinascite e delle morti, il Saṃsāra).
Anche la teoria gestaltica del Sé andrà dunque riadattata affinché lo ‘sfondo’ culturale e sociale nepalese la possa fare propria, digerendola e trasformandola.
Per certi versi, e così come da noi interpretato, l’approccio della Gestalt sembra quasi completamente opposto alla cultura nepalese, forse anche dell’intero continente asiatico. Mentre l’approccio della Gestalt è portato a volte a rendere esplicito l’implicito, la cultura nepalese valorizza e apprezza l’implicito. Laddove l’approccio della Gestalt valorizza la consapevolezza, per esempio delle emozioni, e la loro esplorazione e adeguata (per il paziente) espressione, la cultura nepalese si concentra sul mantenere le emozioni negative (soprattutto le più estreme, come la rabbia, la tristezza, la delusione, ecc.) distanti dalla relazione, in modo che non interferiscano eccessivamente con il buon vivere sociale.
Uno dei nostri studenti ha intrapreso alcune ricerche su come gli psicologi affrontano la rabbia dei propri pazienti. Queste ricerche hanno rivelato che la maggior parte cerca di sostenere il paziente nel rapporto con la rabbia, mediandola o lasciando che sfumi attraverso il respiro. Pochi lavorerebbero con la rabbia, e solo uno di loro ha affermato che permetterebbe alla rabbia di esprimersi nella seduta.
Molte emozioni quindi, sebbene consapevoli, non vengono lasciate emergere, mentre noi, col nostro occhio occidentale, facilmente siamo inclini a denotare tali atteggiamenti come modalità relazionali introiettive e/o retroflessive. Lo sono veramente? Se sono così diffuse, e socialmente riconosciute e incoraggiate in una cultura diversa dalla nostra, come le dovremmo considerare? E inoltre, ciò che noi chiamiamo ‘tristezza’, è tale anche per loro e ha le stesse connotazioni che ha per noi? Queste e altre sono le domande che ci facciamo costantemente. In questo senso, ci assicuriamo di rendere noto ai nuovi allievi che il training in psicoterapia della Gestalt potrebbe essere difficile all’inizio per loro; occorre come sempre capirsi e capire che tale processo sarà lungo e impegnativo: ‘tradurre’ da una lingua ad un’altra, da una cultura ad un’altra, richiede che sia dia dignità a tutti gli attori di tale scambio.
Come formatori otteniamo molto da questo programma, non ultimo il miglioramento delle nostre capacità di didatti e terapeuti della Gestalt di fronte a una cultura così diversa e a una situazione socio-economica così grave, che causa crisi esistenziali di non poco impatto sui singoli e sulle comunità. Siamo dunque sfidati a implementare l’approccio della psicoterapia della Gestalt in un paese e in una cultura completamente nuovi per noi, e allo stesso tempo il progetto approfondisce la nostra comprensione e la nostra sensibilità, anche in merito alla stessa prassi della psicoterapia in generale, e in particolare della Gestalt, come approccio importante in questo contesto, in quanto approccio umanistico, olistico e culturalmente sensibile.
La psicoterapia della Gestalt è la terapia del contatto. Il contatto tra la Gestalt Therapy e le culture del Nepal è una sfida a esplorare, e forse a riconsiderare, i concetti di base della psicoterapia della Gestalt in tutte le sue possibilità e i suoi limiti.

***

[1] Per ulteriori approfondimenti si consulti il sito http://www.gestaltinnepal.com/

Giovanni Turra

Psicologo, psicoterapeuta, specializzato presso l’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos di Venezia, il Centro Studi Terapia Gestalt di Milano e il Gestalt Centre di Londra. Insegna stabilmente negli Istituti di Gestalt a Cracovia, Vilnius e Kathmandu. È inoltre diplomato in flauto al Conservatorio Musicale “A. Pedrollo” di Vicenza. Formatosi all’ISSTIP di Londra, si occupa di psicologia della performance con gli artisti performativi.

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