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Rivista versione ebook € 18

Pietro Andrea Cavaleri

Rivista GTK n. 07

Il dialogo tra il sapere della psicologia e il sapere della fede è da sempre condizionato da una reciproca diffidenza, da una sorta di ‘preclusione ideologica’ che impedisce a entrambe le parti di contaminarsi, di confrontarsi e nel confronto estendere i rispettivi orizzonti di conoscenza e di ricerca. Tuttavia, la sfida a tentare un tale dialogo è stata di recente raccolta da uno psicologo di grande autorevolezza come Erminio Gius, sacerdote e frate cappuccino, per tanti anni professore di Psicologia sociale all’Università di Padova. Il suo ultimo libro, Compassione, pubblicato dalle Edizione Dehoniane di Bologna con una bellissima prefazione di Eugenio Borgna, costituisce la preziosa e straordinaria dimostrazione di come oggi sia possibile far dialogare psicologia e fede, di come l’una possa illuminare l’altra nell’arduo tentativo di penetrare il mistero dell’esistenza umana e delle sue molteplici contraddizioni. Partendo da due famose parabole del Vangelo, quella del figliol prodigo e quella del buon samaritano, Gius affronta il tema della compassione analizzandone gli aspetti psicologici e psicodinamici, ma anche filosofici e neuroscientifici, in un coerente e incalzante succedersi di argomentazioni e prospettive.
Fin dalle prime battute, l’Autore dimostra la propria curiosità e il proprio interesse a penetrare “la sapienza delle Scritture” non solo da una angolatura teologica e spirituale, ma anche da una prospettiva psicodinamica, capace di cogliere più in profondità la vita dell’uomo nella sua “nuda esistenza”, nel suo essere “gettato nel mondo”. La manifesta intenzione di Gius è quella di accompagnare il lettore in un affascinante percorso, che gli consenta di capire la compassione attraverso precise coordinate a forte valenza scientifica, per intravederne poi con maggiore intensità sia la “potenza salvifica” nella visione della fede, sia il “potere terapeutico” verso la fragilità e il dolore umano nell’ottica della psicologia. Egli, quasi a volere condividere con il lettore i sentimenti che animano il libro, afferma: «L’attenzione partecipata al dolore delle persone, nell’inquieta gioventù, mi ha indirizzato sulla strada dello studio della filosofia umanistica e della teologia antropologica fino all’approdo alla psicologia scientifica nell’età matura».
La prima parte del testo indaga il tema della misericordia-compassione e i significati esistenziali che emergono dalla parabola del figliol prodigo e in altri scritti affini della Bibbia. La misericordia appartiene solo a Dio e ne costituisce l’essenza, gli uomini invece possono partecipare ad essa solo vivendo ed esercitando la compassione, che si concretizza nella relazione di aiuto e nella pratica di una socialità democratica. Sul piano scientifico, risulta evidente come l’essere umano sia biologicamente condizionato dall’esigenza di salvaguardare in primo luogo la sua integrità fisica e psichica. La compassione e la misericordia costituiscono per la persona umana l’esito evolutivo di complessi processi di adattamento socio-culturale e di articolati percorsi educativi. La parabola del figliol prodigo diventa il pretesto per una attenta analisi degli equilibri psichici che caratterizzano la persona umana sia dal punto di vista della crescita evolutiva che dei processi relazionali intersoggettivi, in particolare nel contesto delle dinamiche familiari e del rapporto genitori-figli.
L’Autore offre una puntuale e rigorosa interpretazione psicologica del significato sotteso alla richiesta del figlio minore di separarsi dalla famiglia, ma anche del significato esistenziale inconscio insito nella separazione e nella sofferenza che l’accompagna. Egli, sulle orme di Winnicott, sottolinea come per ogni bambino l’innata aggressività abbia la possibilità di evolversi in modo costruttivo se, all’interno del rapporto primario, la madre/ambiente è capace di tollerarne l’espressione. Sopravvivere al potere distruttivo dell’aggressività permette al bambino di integrare quest’ultima, radicando in sé il senso di realtà e di soggettività. Al contrario, se il bambino non riceve cure materne adeguate, in un ambiente che non facilita l’integrazione dell’aggressività, questa finirà per manifestarsi attraverso modalità antisociali e distruttive. È necessario, dunque, assicurare ad ogni persona uno spazio relazionale dialettico, in cui possa viversi come “altra dagli altri”, come una identità soggettiva in rapporto con “identità collettive plurime”. Si delinea come patologico, invece, quel processo evolutivo che culmina in identità soggettive appiattite sulle identità altrui, dalle quali poi diventa impossibile separarsi.
Queste riflessioni psicologiche permettono all’Autore di dare una forma più definita ai personaggi della parabola, ponendo in luce la grandezza del padre compassionevole. Questi si delinea come immagine di quei genitori capaci di entrare nell’oscura notte del dolore prodotto da ogni separazione e di accettare in modo consapevole la necessità di consegnare ai propri figli la piena libertà di scegliere, aprendosi in tal modo all’incognita stessa di una possibile separazione. Si tratta per i genitori di “sacrificare” le proprie aspettative, i propri progetti, di rinunciare in modo definitivo al proprio legame ancestrale, ad un amore esclusivo e possessivo verso il loro figlio. «I genitori che decidono di accettare il dolore della separazione − afferma Gius –, decidono di accettare di morire a se stessi per quella parte di sé (identità genitoriale) rappresentata dal figlio, purché tale sofferenza sia un’opportunità per il figlio di conquistare il senso della sua identità vissuta come ‘alterità’» (p. 66).
L’abbraccio accogliente e compassionevole del padre, colto dal celebre dipinto di Rembrandt, diventa così icona dello “spazio mentale dell’alterità”. Solo chi è capace di compassione, chi sa perdere se stesso per l’altro, è in grado di “riparare” la rottura, di volgere in positivo la differenza di cui l’altro è portatore, di attraversare la depressione conseguente alla separazione. Sostiene a questo riguardo l’Autore che solo «accettando di entrare nel buio della depressione e, di conseguenza, della possibile perdita dell’identità di genitori, è possibile evitare di ‘colludere’ con la sofferenza depressiva del figlio e, quindi, di costruire un setting relazionale di autentico aiuto» (p. 67). Sia in un contesto educativo che terapeutico, il fallimento di un tale processo comporta inevitabilmente l’emergere di preoccupanti sintomi psicopatologici.
Inoltrandosi in una ardita quanto opportuna riflessione teorica e ponendo in pieno dialogo il sapere della fede con quello della psicologia, Gius afferma la natura “trinitaria” della relazione che intercorre tra la coppia genitoriale e il figlio. Si tratta di una relazione dialettica che è insita nell’essenza stessa della famiglia. Il figlio è l’immagine dei genitori, i quali possono “ridire” se stessi come coppia genitoriale in un’altra persona simile a loro, senza tuttavia perdere la loro integrità. Nel “pronunciare” l’esistenza del figlio, nel “dire” lo stupore della sua alterità, i genitori “imprimono vigore alla reciproca conoscenza di se stessi”. La “parola” che afferma, sostiene e “dice” l’altro nella sua differenza si incarna così in una “relazione trinitaria tra soggettività plurime”, capace di rianimare in modo vitale gli affetti e le emozioni, in una reciproca conoscenza di ciascun componente del nucleo familiare. Dire la differenza dell’altro innesca, in tal modo, una dinamica intrafamiliare fatta di reciproco riconoscimento, alimenta preziosi flussi emotivi e affettivi, genera stati intrapsichici e rapporti interpersonali sani.
È a questo punto del suo libro che l’Autore sente “l’irrinunciabile obbligo” di guardare al mistero della Trinità (del “Dio-Relazione”) affinché da esso possa ricevere “illuminazione” sulla complessità e sul significato delle relazioni umane, sia nel contesto familiare che in quello sociale. Riflettere sulla Trinità ci consente di riflettere meglio anche sulla conoscenza stessa «della realtà che ci circonda e sulle nostre relazioni interpersonali, di cui la compassione è ‘immagine e sintesi’ dell’amore trinitario» (p. 71). Egli esprime la convinzione che tutta la realtà sia “proiettata in una soluzione trinitaria”, all’interno della quale “l’uomo diviene esso stesso artefice nel riconoscere a se stesso la sua dignità di persona umana”. Ogni relazione autenticamente umana “sprigiona” la conoscenza di sé e la propria sussistenza. «L’essere persona, infatti, consiste nel suo ‘essere con’ la sua parola (logos) che pronuncia la relazione intra e interpsichica» (p. 72).
La compassione, dunque, ci introduce contemporaneamente al mistero trinitario e al mistero stesso della relazione umana, permettendoci di accogliere la radicale alterità dell’altro, di attivare una sana dinamica di reciproco riconoscimento, di operare una adeguata riparazione dopo ogni rottura, di elaborare il senso di colpa che segue ad ogni tentativo di differenziazione. Il rapporto che il bambino istaura inizialmente con i genitori, in particolare con il padre, è all’insegna della dipendenza, che gli garantisce stabilità e rassicurazione. Questi innegabili benefici, tuttavia, lo bloccano nello sviluppo dell’autonomia, lo costringono alla passività e alla regressione. Egli è prigioniero di un paradosso, che è proprio di ogni esistenza umana. Se si rende indipendente afferma se stesso, ma perde la sicurezza ed è travolto dal senso di colpa per avere sfidato la presenza normativa del genitore. Se rinuncia all’autonomia è costretto a confrontarsi con la mortificazione della sua identità e con la depressione che ne consegue. La dipendenza esita nel blocco evolutivo e nella depressione, la controdipendenza produce invece senso di colpa e può sfociare in una incontenibile carica eversiva. Entrambi gli atteggiamenti psicologici, tuttavia, fanno parte di un normale percorso evolutivo.
Ma come uscire dall’irrisolvibile paradosso? Solo la forza riparativa della compassione può orientare la coppia genitoriale e il figlio verso uno spazio terzo, oltre la dipendenza e la controdipendenza, verso una terza possibilità, cioè verso l’interdipendenza generata dal reciproco riconoscimento, dalla “riparazione” della rottura e della colpa. Dipendenza, controdipendenza e interdipendenza si profilano allora come momenti dialettici di un unico processo di “sviluppo psicologico pieno e solidale”. Le varie discipline scientifiche ci dicono che la realtà è in continuo sviluppo e cambiamento, sia sul versante biologico che psicologico, nel contesto sia della famiglia che della società. Per poter evolvere, per poter cambiare gli assetti mentali della propria identità soggettiva e sociale occorre aprirsi alle esigenze della novità che emerge dal mondo di oggi, è necessario coltivare un pensiero divergente che ci ponga al riparo dai pericoli “della dipendenza acritica e della indifferenza depressiva”. Da qui la preziosa attualità della compassione come pratica relazionale in grado di garantire una necessaria “dinamica riparatoria” (nella famiglia come nella società) e di assicurare un sano passaggio dalla dipendenza/controdipendenza all’interdipendenza, intesa come “fondamento della relazione democratica”.
Queste considerazioni ci permettono di passare alla seconda parte del volume di Gius che, analizzando la parabola del buon samaritano, affronta il tema della compassione questa volta in riferimento all’attuale “società globale” e alla necessità di fondare una nuova “etica della responsabilità”. Nell’era della tecnica, a volte dominata da una razionalità irrazionale e irrispettosa dell’umano, la psicologia è chiamata a capire e a salvaguardare il significato e la pratica della compassione. In questo nostro tempo, a giudizio dell’Autore, è necessario ripensare la «relazione d’aiuto» e occorre «trasferire l’idea di intervento terapeutico dal singolo soggetto alla collettività» (p. 141). E, a tale proposito, egli ipotizza una «carta etica mondiale», che possa costituire di fatto, e non solo sul piano ideale, “un aiuto al vivere democratico”.
Nel ripensare la relazione d’aiuto, Gius la definisce come “superficie interpsichica”, come “interfaccia”, come “spazio mentale” all’interno del quale sia possibile per i protagonisti non solo conoscere l’altro e da lui essere riconosciuto, ma anche conoscere se stessi e saper leggere il sistema relazionale in cui si è coinvolti. Dopo aver posto in correlazione il concetto di compassione con quelli di empatia e prosocialità, dopo aver esplicitato la differenza fra “responsività empatica”, comportamenti prosociali e altruismo, l’Autore si sofferma ad analizzare il contributo della ricerca neuroscientifica nella comprensione delle relazioni interpersonali, dei processi di attaccamento, dell’azione morale. Di particolare interesse risultano le pagine dedicate ai “lati oscuri della compassione”, nelle quali egli esplora in chiave psicodinamica “alcune anomalie” che motivano la compassione e che, radicandosi in una molteplicità di vissuti inconsci, potrebbero assumere una valenza “psicopatologica”.
La parabola del buon samaritano è l’occasione per riflettere sul concetto di prossimità nel “mondo globalizzato”. L’epoca tardomoderna, nella quale viviamo, è attraversata da molteplici contraddizioni e da problematiche sociali di difficile soluzione, che vanno dalle grandi migrazioni al crescente divario tra ricchi e poveri. L’economia globalizzata ha trasformato radicalmente la nostra società, generando innumerevoli paradossi, primo fra i quali l’esistenza di uno spazio globale al quale non corrisponde però una comunità globale. Alla globalizzazione dei sistemi economici, della cultura, dell’informazione, si contrappongono rigide tendenze alla chiusura localistica, al rifiuto di elementari forme di solidarietà e di rispetto della dignità umana. Tutto è ormai diventato più vicino, eppure tale vicinanza non riesce ancora a trasformarsi in prossimità, sicché paradossalmente sembrano diminuire fra gli umani i comportamenti sociali ispirati alla compassione e all’empatia. Nel villaggio globale si sono frantumati i tradizionali sistemi di riferimento, globale e locale non riescono a integrarsi, domina la “geopolitica del caos”, la politica è latitante e i governi non vogliono assumersi la responsabilità di scelte radicali, capaci di rispondere alle nuove emergenze climatiche e umanitarie su un piano internazionale. Manca una “agenda politica planetaria” in grado di contrastare il traffico di droga e di armi, il terrorismo, la criminalità internazionale, l’incontrollata mobilità di capitali, l’instabilità del mercato del lavoro. Emerge con tutta evidenza come a decidere sulla qualità della vita umana e sul destino del pianeta debbano ormai essere “poteri globali”, sovranazionali, democraticamente costituiti. In altri termini, diventa urgente prendere atto dell’interdipendenza dell’umanità e costruire, da parte dei governi nazionali, il “pianeta sociale universale”, garantendo così la “governabilità planetaria”.
Gius indica nella compassione l’unica strada possibile da percorrere per giungere ad un nuovo ordine mondiale che tenga conto della sofferenza. Facendo proprio il pensiero del teologo Metz, l’Autore sostiene che solo dalla compassione per la sofferenza umana può scaturire un “nucleo di universalità” capace di generare un ethos universale, di riconoscere una carta etica mondiale. L’unica autorità in grado di creare un nuovo umanesimo, un nuovo ordine globale, è la “fragile autorità di chi soffre”. La compassione come forza riparatrice, come universale esperienza del patire insieme, può costituire l’unico elemento identitario di una società globale comunitaria, l’unica autorità politica mondiale, l’unico progetto di mondo possibile. Le ricerche della psicologia e delle neuroscienze possono essere di grande aiuto nell’approfondimento del pensiero sulla sofferenza umana. Anche nell’ultima pagina del libro di Gius, il sapere della fede e quello della psicologia si intrecciano felicemente, si contaminano reciprocamente: «Per la ricerca teologica la compassione è perdono, empatia, carità solidarietà, ed è già essa stessa ‘profezia’. Per la ricerca psicologica la compassione è ‘riparazione del dolore innocente’, ed è essa pure ‘profezia’» (p. 201).

Erminio GIUS, Compassione. Bibbia e psicoanalisi per uno studio della società, EDB, Bologna 2019, pp. 223 – euro 18,50

Pietro Andrea Cavaleri

è laureato in psicologia e in filosofia. Psicoterapeuta a orientamento gestaltico, è didatta ordinario FISIG. È stato docente a contratto presso l’Università di Palermo e la LUMSA, attualmente insegna presso la Pontificia Facoltà di Scienze della Formazione “Auxilium” nella sede di Caltanissetta. Ha scritto alcune pubblicazioni sugli aspetti epistemologici della pratica psicoterapeutica e sul dialogo fra psicologia e fede.

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