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Il pudore non è la vergogna. Sia l’uno che l’altra spingono a ricoprirsi, ma mentre nel pudore lo scopo è quello di custodire la nudità come espressione dell’unicità e della vulnerabilità, nella vergogna si tratta di nascondere una nudità vissuta come limite o colpa. Per tale ragione, vergogna e pudore determinano significati e dinamiche differenti nel modo di vivere l’essere nudi e il vestirsi. Anche nel rapporto amoroso la nudità, se vissuta con imbarazzo, blocca l’incontro profondo dei corpi e delle anime. Lo stesso desiderio sessuale si muta in una sorta di vestito indossato per l’ansia di coprire una vulnerabilità negata. In altre parole, perché il vestirsi sia ‘umano’ esso deve esprimere la regalità del pudore e non l’angoscia della vergogna. Il cammino che va dalla vergogna al pudore attraversa tre sentieri impervi. Il primo è quello di accettare il limite di cui la nudità è segno. In ogni corpo, infatti, sono come inscritte la creaturalità (abbiamo il corpo che ci è stato dato e non quello che avremmo scelto), la temporalità (il tempo cambia i corpi), la concretezza (nessun corpo ha la ricchezza di tutti i corpi). Il secondo riguarda il compito evolutivo di (ri)scoprire la bellezza della propria nudità al di là di ogni canone estetico. In questo senso la bellezza «salverà il mondo» se sarà riscoperta in ogni corpo, comunque esso si presenti. Il terzo cammino è quello di ritrovare l’interiorità: usciti dall’‘estetica dello sguardo’ (proprio e altrui) che scruta, valuta, rifiuta, si può entrare dentro la propria pelle (‘estetica dell’esperienza’) e abitare il proprio ‘corpo vissuto’ come declinazione prima dell’esserci.

Giovanni Salonia, Sulla Felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Ed. Il Pozzo di Giacobbe, pag. 46


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