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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia

di Giovanni Salonia

Ripartire. Sembra questo il vissuto che freme nei nostri corpi, che si respira nell’aria. Vogliamo metterci a qualsiasi costo alle spalle le fatiche e le apprensioni di questo lungo interminabile anno. Una spinta che avvertiamo come irresistibile.

Ci chiama il lavoro. Perché il lavoro, anche quello in salita, dà senso all’esistenza. È sussistenza ed è dignità. E il lockdown non deve trasformarsi in un breakdown economico e sociale. Ci chiama la scuola. La scuola nel suo significato più profondo e formativo, fatta non solo di nozioni trasferite ma soprattutto di relazioni e di vita concreta tra i banchi. Ci chiama la città. Come luogo dell’incontro. Con l’amico e con il lontano. Con il conosciuto e lo sconosciuto.
In questi mesi abbiamo recuperato (o sofferto) il familiare, lo scontato. Ma la vita, quella che sentiamo vibrare e fremere nei nostri corpi, cerca adesso il non familiare. Abbiamo bisogno di novità, di sfide. Casa e città si chiamano e si integrano reciprocamente. Forse prima del Covid penalizzavamo la casa e i legami ravvicinati. Ma le mura domestiche che ci hanno protetto rischiano adesso di confinarci. Il computer ci aggancia all’altro ma ci veste di freddi pixels che sembrano togliere l’odore delle relazioni. Durante la pandemia abbiamo dato spazio e tempo alla casa. E adesso vogliamo la città.

Vorremmo subito un’immunità per tutti, per uscire dall’apnea. A qualsiasi costo. Che sia immunità di gregge. Indotta o spontanea. Che sia libertà dalla paura. È cominciata la corsa al vaccino, tra dubbi, paure, speranze e certezze. Onore all’importanza di questo strumento tutto umano, che adopera la geniale capacità del nostro corpo di auto costruirsi i mezzi per la propria difesa. I vaccini – si dice – hanno salvato il mondo. Grazie a loro, quest’anno potrà diventare solo un brutto ricordo.

Ma che il ricordo resti! Perché l’immunità autentica e decisiva sarà quella dall’indifferenza, dalla superficialità, dal pericoloso “tanto a me non può succedere”. Che sia un gregge atipico dunque, pensante e cosciente. Che questa immunità ci doni la bellezza di poter godere del nostro presente nel rispetto del passato. Che sia pienezza dei nostri affetti, mentre stiamo imparando a viverli non più come presenze scontate, ma quali realtà vulnerabili, segnate dalla precarietà degli eventi. Perché abbiamo imparato che possiamo trovarci travolti senza umano preavviso. Che l’abbraccio ci trovi ancora vivi e pronti, quando tutto sarà meravigliosamente finito. Che ci ritrovi non mutati nell’accoglienza, nell’abbandono, nella richiesta del contatto. Avvenga questa forma di nuova immunità delle anime, come passo evolutivo che ogni fatto storico ‘deve’ portare dentro e dietro di sé.

Ripartiamo. Anche con il viso coperto. Le foto che rivedremo tra anni parleranno di noi, dei nostri sorrisi invisibili, occultati dalle mascherine. Necessarie per incontrarci. Mi copro per vederti, per incontrarti. E se – come si augura il poeta – le mascherine ci avessero insegnato a togliere la maschera che copre i nostri volti?

Ripartiamo. Ma senza negare la paura, con un’audacia prudente. È stato scritto con saggezza che per ripartire abbiamo bisogno di una lente che moduli il microscopio col telescopio. Il microscopio per vedere nel presente ciò che ci sfugge, a motivo delle nostre cecità egocentriche. Il telescopio per scorgere, nonostante le pressioni del presente, l’orizzonte che si sta aprendo nel prossimo passo in avanti. Solo dentro il presente-passato e il presente-futuro si decide il passo a venire.

Ripartiamo. Sentendo la terra nostra madre, abitando i nostri corpi. Ripartiamo assieme, ponendo in prima linea i più fragili, coloro che fanno più fatica. E ripartiamo con i giovani, accanto a loro, che sono stati forse i più colpiti dalla sospensione generata dalla pandemia. Perché mutilati nella loro spinta a crescere, ad esplorare, ad esprimersi, a conoscere e sintonizzarsi col mondo (reale) esterno. La fredda pandemia, con il confinamento e l’isolamento da lei imposti, ha fatto esplodere malesseri e follie. Da realtà virtuali sono i disagi e gli squilibri sono diventati cruenti fatti di cronaca, che oggi schiaffeggiano la nostra civiltà. Dolore e follia tra gli adolescenti, sentimenti probabilmente esacerbati dalla solitudine di un mondo distanziato ed inerme. Ragazzi, a cui è stato rubato un anno di spensieratezza, di verde, privati della vitalità e dell’asprezza della scuola. Ventenni bloccati mentre si affacciavano sul mercato del lavoro. Trentenni fermati proprio mentre iniziavano una carriera messa su con fatica. Questi ragazzi hanno bisogno degli adulti. Della loro presenza, della loro generosità, delle loro parole. Se crescere è stato sempre difficile, per i giovani di oggi le difficoltà sembrano esasperate. Abbiamo bisogno di nuovi paradigmi se vogliamo un futuro per noi e per i figli dei nostri figli. Dobbiamo forse chiederci: e se questi mesi lunghi, dolorosi, a tratti non fossero stati le doglie sofferte per generare una ‘nuova umanità’? E se ripartire significasse, in ultima analisi, ripartorire? Partorire una generazione ‘altra’ che ha appreso elementi di base decisivi per rimanere, per tornare ad essere umani.

Impariamo il cammino della fratellanza: che è amicizia, accoglienza, gentilezza. Degli umani tra di loro, gli umani e il creato. Il 4 febbraio 2021 è stata celebrata la prima giornata internazionale della fratellanza. Che sia profezia: punto di partenza verso una nuova frontiera dell’umanità. O ci riscopriremo fratelli o perderemo tutto. Francesco ha ragione…

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