di Giovanni Salonia
Marco si china per raccoglie la penna caduta a Giulio suo caro amico. Ma la maestra deve bloccare quel gesto spontaneo. È diventato pericoloso: si rischia la trasmissione del Covid. Ester incontra Carla, l’amica che non vedeva da anni. Le braccia si protendono per abbracciarla, ma deve subito bloccare lo slancio spontaneo: sta rischiando un contagio.
Giorno dopo giorno va crescendo in noi la triste certezza che la fine del lockdown non ha prodotto – come speravamo – la fine del virus. Dobbiamo rassegnarci alla possibilità che il Covid possa diventare una condizione strutturale (almeno per un po’), insinuandosi fin nei meandri della nostra esistenza. Di certo, oscillando tra timore e rassegnazione, ci dobbiamo chiedere se lentamente e irrimediabilmente verranno modificate le nostre modalità di relazione, il nostro rapportarci con il nostro e gli altrui corpi. Sono saltate alcune regole scontate del nostro convivere. In primo luogo la spontaneità dei gesti relazionali e dei rituali delle interazioni corporee. La prossemica (quanto stare vicino e quanto stare lontani) non è più scontata. Anzi è diventato inquietante, quasi impossibile, codificarla. Quando e quanto stare vicini a livello intercorporeo? E se si intrecciano mascherina e distanza ottimale chi abbia difficoltà acustiche non rischia di ripetere in modo ossessivo e noioso: ‘come?’ ‘cosa hai detto?’. E poi: quando e quanto abbracciarsi? Congiunti fino a quale grado? E come sostituire l’abbraccio e il bacio, modalità costitutive dello stare assieme in Occidente? Anche l’incomprensibile, ridicolo e grezzo suggerimento di toccarsi con i gomiti (come mai non si è fatto ricorso all’elegante stile orientale del salutarsi con inchino e mani giunte?) è ormai ostracizzato e ci si chiede come esprimeremo la gioia di incontrarci o di rincontrarci dopo anni, di avvicinarci nel dolore e nella gioia. È vero: avevamo riscoperto la bellezza dello sguardo per supplire all’impossibilità di toccarsi. Ma la supplenza è supplenza. Risentiamo forte la voglia di tornare ad abbracciarci in piena liberta o, meglio, in piena spontaneità.
Perché è appunto la spontaneità che rischia di smarrirsi in questo ‘mare di confusione’ (lessico volgare), in questa ‘società borderline’ (lessico psicoterapico). Certo, quello di spontaneità è un concetto sfaccettato, ambivalente. Secondo il vocabolario indica un’assenza di costrizione e suscita simpatia e freschezza. Dire di un fatto naturale che è spontaneo serve a escludere l’intervento umano. Ad altro livello, un gesto spontaneo fa pensare a un’azione istintiva, non artefatta, naturale. Ma a guardarci dentro le cose sono più complicate.
La spontaneità umana rimanda infatti ad una intima connessione tra il ‘sii te stesso’ e l’‘esprimi te stesso’. Un agire non premeditato, non studiato, spontaneo appunto, può risultare anche patetico o addirittura pericoloso. Mentre restiamo entusiasti di fronte alla spontaneità del bambino, nello stesso tempo gli stiamo dietro per ‘bloccare’ la sua apparente spontaneità: il fuoco non si tocca, le scale si scendono un gradino alla volta.
La spontaneità che gustiamo e che ci incanta ha una caratteristica ben precisa: la vitalità, la grazia. Il bambino che con un gesto spontaneo fa una carezza al fratellino o ti stringe con il suo pugnino il tuo dito ti inonda di grazia e di calore. Ma quanto più chiedi ad un bambino di ripetere quel gesto tanto più si affievoliranno la grazia e il calore. La spontaneità ‘accade’ e non può essere ripetuta.
La grazia della spontaneità nasce quando si incontrano innocenza ed esperienza (Blake). È come dire che la spontaneità accade: ha una sua intima e innata innocenza. Nessuno può provocarla. Ma nello stesso tempo ha bisogno dell’esperienza, ha bisogno di una preparazione, di un’educazione. La spontaneità si consegna a chi non la cerca. Si consuma nell’attimo in cui accade. Non si può diventare esperti nella spontaneità. Si è stati o non si è stati spontanei. Eppure ci vuole un’educazione.
Educarsi alla spontaneità significa educarsi alle qualità che la rendono possibile. Quando Agostino dice: ‘ama e fa quello che vuoi’ intende: ‘cerca la verità che è nell’intimo più intimo del tuo cuore e poi sii spontaneo nell’amore’. Per questo, è assurdo dire ad una persona: ‘Sii spontaneo’, così come dirgli ‘segui il tuo desiderio’. Sono messaggi seduttivi, certo, ma estremamente vuoti e confusivi. Perché spesso il difficile è proprio sentire il desiderio autentico, sapere cosa davvero si vuole. Inviti assurdi, che nascono dentro le contraddizioni della nostra postmodernità, se succede, come spesso succede, che l’antico ‘sii come ti vogliono gli altri (la società, la famiglia)’ non abbia compiuto il necessario cammino verso il ‘diventa ciò devi diventare’.
Da questo punto di vista, l’illusione di Rousseau o la tristezza di Freud possono aprirsi a nuove strade. Si tratta di coniugare in sé stessi quello che si è con quello che si è diventati e con quello che si intende diventare. Il passato che diventa presente (chi sono diventato) e il futuro che diventa presente (chi voglio diventare) creano la spontaneità del presente.
Sii te stesso: ascolta il tuo corpo. Non nel pensiero che vuole prendere (più che comprendere), non nella volontà che vuole dominare il corpo e la realtà, ma nel consegnarti ai corpi e al fluire della vita che è fiume e sponda: lì la spontaneità fiorisce.
Torniamo agli inizi. Come salutarsi. Se le mie braccia si muovono per abbracciare l’amico che non vedo da anni, il mio corpo sa che c’è un pericolo invisibile mentre sente al contempo la voglia di abbracciarsi che circola tra i nostri corpi. Se lo ascolto, non sarò ingenuo ma non sarò paralizzato. Scoprirò il modo. Anzi, verrà spontaneo. Là dove il coronavirus ci inchioda può rinascere una nuova spontaneità. Non quella scontata dell’abbraccio, non quella imposta gomito a gomito, ma quella mia, quella tua…
Auguri.