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Nascere ha significato infatti per ognuno di noi essere scelti, essere sottoposti ad un lungo processo di crescita, ad una formazione lenta, che è accaduta in un uno spazio chiuso, “finito” – quell’acqua primordiale avvertita come l’unico, insostituibile elemento vitale – , in una sintonia donativa con l’altro, anzi con l’altra, la donna madre, icona di ogni prossimo, che ci ha sostenuto con il suo corpo e con la sua voce. Fino al momento in cui, in una maniera per noi angosciante, si sono create le condizioni di un cambiamento incredibile, è avvenuta nel tempo una maturazione che ha funzionato come una forma di pressione, pericolosa e salutare, verso un salto, verso l’approdo ad una dimensione diversa ed impensabile. Così abbiamo lasciato con tremore lo spazio che credevamo l’unico, abbiamo abbandonato il conforto del finito, ci siamo sentiti condotti a forza al di là del corpo edenico e della voce che ci assisteva e ci cullava. Eppure sentivamo che un’energia potente e incontrollabile premeva, e che con la sua forza essa puntava e ci trascinava verso un oltre. Quel viaggio nel buio era uno sfondamento, era l’apparire ad un elemento nuovo ed infinito, dove il corpo non si perdeva ma acquistava un volto, dove la voce ancor di più si approssimava dolcemente. Un passaggio duro, accomunato dall’urlo di lei e dal nostro, un passaggio in cui ci si sente finire, come un dolore mortale ed imparagonabile, in uno sforzo quasi sovrumano, accompagnato dal fluire dei liquidi vitali, inter urinas et feces nascimur, perché non si passa senza l’immersione nell’impuro, nello sporco, nella bassa, banale fisiologia che ci fa uomini. 


Antonio Sichera, Fino alla fine. Meditazioni su Getsemani, ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg .103-104














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