Ripartiamo da una domanda inevitabile. Che cosa è chiamato a fare il terapeuta, o almeno il terapeuta della Gestalt, di fronte a quanti si trovano nella distretta più grande, sull’orlo della disperazione e della morte, di fronte ai sofferenti di ogni tipo e di ogni dove, che mostrano nel sintomo la ferita, la lacerazione, lo schianto esibito del loro corpo, strappato dalla terra e dal nutrimento della vita? Il libro di Ungaretti può essere ascoltato anche in questa direzione, perché la poesia, in quanto forma della vita, ci restituisce per intuizioni quel che un’autentica teoria dell’esperienza di contatto cerca di pensare senza irrigidire. Quindi: che fare? Ungaretti pare dirci, anzitutto: ascoltare, ascoltare il silenzio, non averne paura: «Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire, / Se sperate di non perire». Qui il grido è il rumore dei viventi, che coprono con lo stridio delle voci il silenzio dei morti. Fare silenzio, abbassare il volume, lasciare che i morti parlino, ovvero che il corpo morto dell’altro, ma anche le parti morte del sé abbiano diritto di parola nel setting, possano esprimersi con libertà, coltivate delicatamente dal terapeuta-poeta così come si coltiva, senza far nulla ma in religiosa attesa, l’erba che cresce nel campo: «Hanno l’impercettibile sussurro, / Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba» (Non gridate più). Solo creando, consentendo l’ascolto e l’espressione della morte, che abita nel corpo del dolente («Nelle vene già quasi vuote tombe / L’ancora galoppante brama», Nelle vene) può ricominciare a farsi spazio la parola, che sarà forse in principio lamento, ma che poi guadagnerà il ritmo del corpo, aprendolo di nuovo al linguaggio come via privilegiata per ritrovarsi nel mondo, di fronte all’altro…
Antonio Sichera, Ungaretti. Il dolore, in GTK 6, Rivista di Psicoterapia, Maggio 2016, pagg. 69-70