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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia. CLICCA PER LEGGERE L’ARTICOLO SUL QUOTIDIANO

di Giovanni Salonia

2021. Nell’attimo in cui ci siamo fermati, prima di scrivere l’ultima cifra, è nascosto il sentimento profondo con cui affrontiamo il nuovo anno. Valgono per tutti noi le parole del poeta: “Eppure/ piccola porta della speranza, / nuovo giorno dell’anno, / sebbene tu sia uguale agli altri / come i pani / a ogni altro pane, / ci prepariamo a viverti in altro modo, / ci prepariamo a mangiare, a fiorire, / a sperare” (Neruda).
Eppure, la stanchezza ormai ci rende esausti. Quanto resisteremo? I cedimenti di queste settimane ci sono costati nuovi isolamenti, mentre inaspriscono le curve, minacciose e in risalita. Quelle no, non sono affaticate. Cominciamo di fatto a raccogliere gli amari frutti di una condizione che per mesi ci ha costretto a chiusure di ogni genere. Solitudini interiori allora ancora gestibili, oggi cronicizzate in una condizione di spossatezza dei corpi. Corpi e menti stressati da isolamenti fisici e affettivi che mettono a dura prova la nostra capacità di crescere e di andare avanti. È l’umana, legittima stanchezza che affligge quest’erta altrettanto umana e faticosa, soprattutto quando si presenta così inaspettata e violenta. E duratura.

La pandemia questo ci sta insegnando, che gli umani sono tali perché apprendono. Imparare che dentro ogni crisi c’è l’occasione di rimettere ordine. Imparare che ogni anello è indispensabile per la saldezza della catena di cui si fa parte, e per questo va rispettato profondamente nella sua unicità che lo lega al tutto. Imparare, ad esempio, che le regole decise dall’alto (e difficilmente controllabili casa per casa) non sono altro che un onesto e adulto invito al buonsenso, per il bene della comunità. Imparare che l’ammutinamento tutto sommato è sinonimo di sconfitta, perché l’ostilità e il rifiuto delle regole si rivelano nemici in casa, incontrollabili e pericolosi. Imparare… che stiamo ancora imparando.

Qualcuno tra i miei dieci lettori mi ha scritto: come imparare ad apprendere nuovi stili di vita, a scrivere assieme la sorte? Rispondo (o provo a rispondere): imboccando la strada di un cambiamento globale, come se dovessimo apprendere una lingua (e non una frase). Entrando in un’altra visione del nostro mondo interiore, delle nostre relazioni, del nostro rapporto con il creato. Oggi non crediamo più al pensiero magico. E siamo nell’angoscia. Perché non controlliamo più la vita. Dobbiamo apprendere ad accettare di non essere dèi, di essere figli della vita, suoi custodi. Solo così ci renderemo conto che da soli e assieme è possibile costruire il sostegno di cui abbiamo bisogno. Allora la solitudine che viviamo sarà accettata e sarà aperta all’incontro con l’altro.

La pandemia ha scardinato gli automatismi che ci davano sicurezza. E ci sentiamo angosciati. Ma proprio quando si scardinano gli automatismi, proprio allora, dopo lo shock, emergono pensieri nuovi, apprendimenti nuovi. È vero. Ogni apprendimento è generato dal dolore e genera sofferenza. Ce lo ricordano i greci: si impara dal dolore. Per loro, il ‘conoscere sé stessi’ si coniugava con il ‘meden agan’: niente di troppo. Sii umile. L’umiltà è il vertice della conoscenza. L’orgoglio (la hybris) – e cioè l’arroganza, la prepotenza, l’essere predatori – è inconciliabile con l’essere umani e conduce a derive letali. Nel trivio in cui si incontrano Laio e Edipo, ambedue messisi in cammino alla ricerca della verità (‘chi e mio padre?’; ‘quale sarà la mia morte?’) l’orgoglio prende il sopravvento: non più la verità ma la prepotenza. Se invece di lottare per la precedenza si fossero guardati negli occhi, forse avrebbero intravisto quell’angolo di solitudine che è la ricerca di un padre, la ricerca di un figlio. Dobbiamo apprendere un nuovo stile relazionale che coniughi la verità con la relazione, diventando consapevoli che nella relazione, quando ‘si vince’, in realtà si è sempre perdenti. Questo vuol dire apprendere la dignità, la luce che è dentro ogni debolezza, dentro ogni fragilità. Tendiamo a trasformare le differenze in gerarchie di valore e di potere, invece di viverle come danza del cerchio della vita.

Perché la dignità e l’amore sono valori che esistono nell’intimo più intimo del cuore. Solo gli umani sono capaci di non blindarsi nella fortezza dei propri bisogni. Prendersi cura degli ultimi ci permette di restare umani, di rischiare la vita. Come abbiamo visto e continuiamo a vedere nella pandemia. L’abbiamo chiamata santità laica. A questa necessità radicale fa riferimento in un suo vibrante messaggio di questi giorni don Corrado Lorefice: «Appena un mese fa piangevamo insieme la morte del piccolo Joseph […]. Oggi abbiamo la conferma che i quattro bambini i cui cadaveri sono stati ritrovati il 18 dicembre scorso sulle coste libiche, nel silenzio generale, sono morti annegati durante un respingimento, uno dei tanti ‘push-back’ operati dalla cosiddetta guardia costiera libica. Gli ultimi report sui fatti avvenuti nel Mediterraneo fanno stringere il cuore a chiunque avverta ancora il senso della propria umanità: siamo chiamati a reagire da esseri umani e da cristiani». Prenderci cura dell’altro, proprio quando noi siamo in difficoltà, ci fa diventare più umani. Perché se si salvano gli ultimi si salveranno anche i primi. Questa è la legge della vita umana.

‘Tornino i volti’ era l’invito del secolo scorso. Oggi possiamo forse tradurlo così: ‘Tornino gli occhi che scoprono la solitudine e l’incontro. Tornino le parole che nascono dal mio corpo e al corpo dell’altro approdano. Torni la consapevolezza che anche gli alberi, anche le cose respirano’. Perché solo nel respiro ritroviamo l’unità di viventi e non viventi: il ritmo del dare (espirare) e del ricevere (inspirare). Il ritmo quotidiano del consegnarsi e del ricevere la vita dalle mani dell’altro.

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