Mi piace sintetizzare la ricchezza del libro di Borghi dentro il paradigma triadico del piacere. Primo scopo del piacere è farci abitare il corpo. So di avere una parte del corpo proprio perché è stata luogo del piacere; tutte le parti del corpo che non hanno sperimentato il piacere rimangono desensibilizzate e creano un senso globale di insoddisfazione e di incompletezza. Se avessimo accolto le teorie di Freud sullo sviluppo del bambino e le avessimo rilette a livello teologico, avremmo individuato la sua grande lezione sullo sviluppo del corpo. Il piacere abita principalmente le parti del corpo (gli sfinteri) che sono la frontiera della relazionalità (mangiare il cibo, espellere ciò che non è assimilabile, essere capaci di piacere, condividere il piacere). È proprio questa la seconda dimensione del piacere: la scoperta dell’alterità, del corpo altro da me. Il piacere è sempre connesso in termini di presenza o immagine a un altro corpo. E infine – sapienza del Creatore! – il piacere finisce. Anzi “deve finire”. Un piacere che non finisce ci fa perdere la nostra identità corporea. Se ci teniamo la mano per un’ora, alla fine non sapremo più riconoscere la nostra mano da quella dell’altro. Il piacere finisce per insegnarci che è occasione per la nostra crescita e poi dobbiamo ritornare a noi stessi, arricchiti dall’incontro e pronti a scoprire, nel desiderio che ritorna e nell’attesa della risposta dell’altro, la reciprocità. L’altro non come protesi dei miei bisogni, ma come altro e come oltre da me e di me, direbbe Gadamer.
Giovanni Salonia, Prefazione, in Gilberto Borghi, Dio, che piacere! Per una nuova intelligenza cristiana dell’eros, ed. San Paolo, Milano 2018, pag. 12