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Stare accanto a chi è provato e dolente non significa stargli addosso o credere follemente di potersi sostituire a lui. La cura autentica di chi è immerso nel dolore è l’essere accanto, l’assistere rispettoso, il sedere silenzioso, che non toglie all’altro il rischio personalissimo della sua vita ma lo accompagna con affetto. Se l’altro c’è e assiste partecipe, chi soffre va da solo ma sente la presenza. Va da solo ma in verità va insieme. Per questo, il luogo giusto della compagnia è sempre il luogo contiguo, il ‘qui’ (gr. autou) che non invade il ‘là’ (gr. ekei). Nessuna pretesa di invasione, nessuna parola di consolazione, ma il sapere di essere uniti in una distinzione che non si può elidere e che è il fondamento stesso della relazione. L’altro è infatti, alla lettera, il ‘prossimo’, colui che ci è vicino nel suo luogo, l’adiacente. Ne abbiamo spesso, è vero, una rappresentazione deformata, distorta. Lo pensiamo come il soggetto di un bisogno da colmare, l’oggetto di una attenzione pur magari amorevole, il sofferente che ci si offre come opportunità di azione. Ma prossimo vuol dire in verità il vicino non coincidente, l’altro sempre confinante. Solo dove siamo e ci riconosciamo diversi possiamo entrare in contatto, solo lì si può dare vero rapporto. Accettare la differenza, accoglierla e farla vivere è il compito più alto e complicato delle relazioni affettive. Il luogo contiguo significa infatti uno spazio mediano tra l’invasione che soffoca e la distanza che distrugge, tra la passione epidermica che stringe e il rifiuto istintivo che uccide. È questo lo spazio di cui oggi più che mai siamo in cerca, in un tempo di grandi attaccamenti e di enorme violenza, [un tempo] bisognoso di silenzio, di ascolto, di parola che ospita e contiene.
…Perché l’assistere autentico vuol dire essere svegli. L’altro che soffre ci chiede prontezza, non azione spasmodica o anticipazione ansiosa, ma attesa acuta e vigile.
Antonio Sichera, Getsemani, 2017

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