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Come cantare la Pasqua nei giorni del coronavirus? Quante donne e quanti uomini inchiodati in un interminabile Venerdì Santo! Quanti distrutti dal silenzio di Dio, di qualunque Dio, in un Sabato Santo che pare infinito! Come cantare la gioia se i corpi non possono immergersi nella primavera del creato, non possono abbracciare ed essere abbracciati? Come cantare se non si può uscire di casa?

Al nostro direttore Giovanni Salonia oggi è stato chiesto di rispondere a queste domande sul quotidiano La Sicilia.
Qui ve lo riproponiamo come sempre integralmente.

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La Domenica di Pasqua è il giorno del canto. Eppure tornano subito alle labbra e al cuore le parole del poeta: “E come potevamo noi cantare / Con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze?”. Come cantare la Pasqua nei giorni del coronavirus? Quante donne e quanti uomini inchiodati in un interminabile Venerdì Santo! Quanti distrutti dal silenzio di Dio, di qualunque Dio, in un Sabato Santo che pare infinito! Come cantare la gioia se i corpi non possono immergersi nella primavera del creato, non possono abbracciare ed essere abbracciati? Come cantare se non si può uscire di casa? Pasqua è la festa dell’incontro, della pace, del pulcino che riesce ad uscire dal guscio, dell’uomo, della pietra ribaltata, del Risorto. In molte delle nostre città è la festa della Madre addolorata che va in cerca del suo Figlio e che al momento dell’incontro esplode in un grido di gioia, e magari bacia ripetutamente il frutto del suo grembo. Tempi difficili: ci mancano gli abbracci. Una Pasqua senza abbracci non sembra Pasqua.

Questa festa però è legata, per tutti, al di là della fede, ad un racconto che alcune donne e alcuni uomini ci hanno consegnato. Il racconto di un’esperienza sconvolgente e inedita per la storia umana: quella di un uomo che viene fuori dal sepolcro. Proviamo ad ascoltare allora quel racconto, per sentirci dire quel che viviamo in questi giorni. Un sorpresa ci coglie immediata. In un punto nodale della narrazione troviamo proprio un abbraccio rimandato. “Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli”. Come a dire: non mi abbracciare, prima devo compiere un altro movimento, devo andare in un’altra direzione. Intrigante: bloccare un abbraccio per renderlo più pienamente tale. Una pausa dall’abbraccio può renderlo diverso? E se fosse una metafora del tempo che viviamo? Se intendesse rinviarci ad una pausa che rigenera?

Il coronavirus ci ha ricondotto al fondo della condizione umana: siamo gettati nel mondo. Ci viene da urlare. Nessuno di noi è Dio. E come vorremmo esserlo in questo tempo. Nessuno ha visto Dio. E ci scopriamo tutti cercatori di un senso del nostro soffrire e del nostro morire. E i morti sono tanti, sono troppi. Nessuna età ormai è risparmiata. Anche i più giovani muoiono. E quanti sono quelli che finiscono la loro vita da soli! In diversi luoghi del pianeta i morti vengono buttati per strada o ammassati perché non c’è posto nei cimiteri. Eppure ognuno di questi corpi morti è stato generato, è stato amato, ha amato, forse ha generato. Uno strazio infinito. Perché? Sembra impossibile essere consolati. Di fronte a questa voragine di dolore non ci sono risposte che convincano. L’unica sarebbe quella di essere sollevati dal dolore. Ma non si può togliere il dolore dal mondo. Neppure quello ingiusto. Neppure quello eccessivo. Neppure quello innocente. Se ci volgiamo al racconto di Pasqua, troviamo un uomo che ha gridato l’abbandono di Dio, che ha urlato il proprio dolore. E non è stato ascoltato, né in cielo né in terra. Ha retto e ha creduto perché ha sentito che la sua vita era unita a qualcuno, che qualcuno lo amava e lo aveva amato. E per questo credeva che per lui vivere avesse senso. E per questo pensava che dare la vita per gli amici (chiamò amico anche il suo traditore) fosse la cosa più importante, più grande che si potesse fare. Impariamo da quel racconto che ci vuole un significato per attraversare il dolore. Che a tenerci in piedi (a farci risorgere) è la memoria dell’amore che abbiamo ricevuto e che ci troviamo scritto nel corpo. Nell’amore c’è il senso di ogni esistenza, anche la più dura. È stato così anche ad Auschwitz. È stato così, per trent’anni, per Nelson Mandela, rinchiuso senza speranza apparente in una minuscola cella di uno sperduto carcere sudafricano. Kavafis lo ha cantato in maniera folgorante: “Ricordati, o mio corpo”. Ricordati del baci che hai ricevuto, delle carezze che ti hanno sfiorato, degli sguardi che hanno toccato la tua anima, delle parole che ti hanno fatto crescere o ti hanno un giorno consolato. È lì la forza. È dentro di noi. Anche nel momento della morte è il rimembrare che fa compagnia, perché il ricordare riporta al cuore (questo significa ricordare) quel che sostiene il vivere e il morire, il morire e il rivivere.

Essere amati ed amare dà forza e senso alla vita. In questo tempo spicca infatti la sofferenza di chi deve rimanere a casa da solo e di chi non ha una casa in cui vivere. Il dolore degli ultimi, creato da un sistema economico disumano, che si è preoccupato solo del profitto e non delle persone. A Pasqua si racconta di un uomo che aveva detto che solo l’amore concreto salva. Solo il soccorso portato ai poveri, ai carcerati, agli ammalati. Amare resta il segreto imprevedibile della vita. La vera Pasqua, quella che siamo chiamati a vivere oggi, sollevandoci dal nostro piccolo, è quella di quanti hanno dato e stanno dando la vita. Senza pretese di eroismo. Da donne e da uomini. Punto. Se chiedi loro perché lo fanno, ti guardano negli occhi e vanno avanti. Il gesto di Pasqua, che oggi ci consegniamo e che vorrei riscaldasse questo mio e vostro giorno, è quello della dottoressa che presta il suo cellulare ad una donna morente per consentirle di videochiamare le figlie. È il fiore di questa Pasqua, il segno di un altro che ci previene. Per papa Francesco è questa in fondo anche la metafora di Dio, così come la raccontò un giorno ad un gesuita siciliano: “Caro Antonio, Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, che fiorisce sempre per primo”.

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