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Concordiamo con quanto espresso da Marchesini, per cui: «non basta affermare che la presenza del pet fa bene», altrimenti si rischia di cadere in visioni magiche e taumaturgiche dell’animale, banalizzando in tal modo la relazione stessa. Non è vero che l’animale faccia sempre emergere e stimoli ciò che c’è di meglio nella persona o dia modelli utili al suo miglioramento; non basta affidare un animale ad un paziente (o viceversa, come paradossalmente avviene in molti casi). A nostro parere, ha più senso interrogarsi sull’esistenza di una buona scienza che tenga conto delle peculiarità e del benessere psicofisico ed emotivo di coloro che vengono coinvolti. Quale dimensione socio-culturale può nutrire una mentalità zooantropologica che tenga conto del valore relazionale? Come afferma Mark Bekoff, è una buona regola riconciliare il senso comune con il senso della scienza: «Gli animali, nostri parenti, dipendono dalla nostra buona disposizione d’animo e dalla nostra clemenza. Gli animali dipendono da ciò che gli esseri umani hanno in mente rispetto a quali sono i loro migliori interessi. La scelta è tra intromettersi, abusare ed essere compassionevoli. Non dobbiamo fare qualcosa soltanto perché possiamo farla. Ognuno di noi è responsabile delle proprie scelte, che dovrebbero essere basate su alcuni ideali: 1) il rispetto, la compassione e l’ammirazione per gli altri animali; 2) porsi seriamente dal loro punto di vista; 3) stare dalla parte degli animali rischiando di peccare per eccesso quando siamo incerti riguardo alla loro sofferenza […]».

Aluette Merenda e Giuseppe F. Merenda, Zooantrolopogia Clinica: presupposti epistemologici e contesti applicativi, in Aluette Merenda “Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt therapy e prospettive di zooantropologia clinica”, ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg. 31-32



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