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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia

Siamo in una terza fase dell’era del corona virus. La prima ci sorprese rapinosa. La reazione fu una grande confusione ma anche una mobilitazione generale. Oscillavamo tra il canto dai balconi e lo strazio dei camion carichi di bare, tra le strade deserte e gli ospedali affollati. Leggevamo e scrivevamo per capire il senso di quanto ci accadeva: cercavamo nel passato qualche risposta, ma quel che vivevamo aveva un non so che di inedito. Non era guerra, non era attacco terroristico, non era peste. Era altro. La vendetta del creato depredato. Con tutta la nostra tecnologia visibile, venivamo messi in ginocchio da un virus invisibile. Siamo rimasti senza piazza e senza abbracci. 

Poi è arrivata la fase due, quella del ritorno del contagio. Questa volta ci ha trovati stanchi: i canti finiti, i tanti ‘eroi’ delle corsie prostrati e delusi, gli esperti confusi, la sensazione fastidiosa che non ci saremmo più liberati dal morso del virus. Cercavamo di riprenderci la nostra vita. A sussulti. Un passo avanti e uno indietro. Tra vittoria e sconfitte, tra il giallo e il rosso. Con una domanda sottesa e angosciante: ma se un affetto non si esprime, non è che alla lunga si modifica? Abbiamo cominciato a temere una progressiva lenta possibile modifica del nostro modo di essere umani. Ci siamo detti: come crescerà una generazione di giovani a cui è stato tolto l’abbraccio, il gruppo dei pari, i corridoi e la ricreazione a scuola, lo sperimentarsi fuori di casa e il far gruppo negli spazi riconosciuti quali luoghi dell’iniziazione alla vita adulta? 

Con i vaccini è arrivata la terza fase. I volti, i corpi si stanno aprendo alla speranza. Ma non è facile lasciare la rassegnazione: resteremo sempre così, sempre vulnerabili? Quale variante metterà di nuovo a rischio la nostra sicurezza rattoppata? La terza fase è proprio come l’ora della notte in cui non si sa se le prime luci dell’alba continueranno a crescere o saranno ancora vinte dal buio. Si tratta di ritornare alla vita con fiducia non solo perché la situazione migliora ma anche perché stiamo imparando alcune lezioni. Stiamo imparando che la terra va abbracciata e custodita, che i corpi vanno abitati, che la qualità dell’abbraccio conta più della quantità, che lo sguardo – protratto un secondo in più dello scontato – ha un potere di contatto superiore al toccarsi con il pugno e col gomito, che la vita è riparare con l’oro i vasi rotti (kintsugi), che la resilienza deve essere amore alla vita senza aggettivi, che si può essere sicuri nella confusione e pieni di speranza nell’incertezza, che la vita non è destino ma compito perché possiamo dare la forma che vogliamo alla realtà, fosse pure la più aspra.

Abbiamo imparato che nella solitudine si può sentire pienezza d’umanità. La solitudine: l’incubo del tempo del coronavirus. La solitudine: spazio interiore inabitato e deserto, gremito da un senso di inospitale e sconfinata vastità. La solitudine ci appartiene. Nasciamo soli e nudi, con attorno un corredo di vocio e di volti sconosciuti e inteneriti, calde coperte (non solo emotive), pensate e cucite da tempo, che non potranno mai sostituirsi al vero legame e al calore che per settimane ci ha nutrito e protetto. Da quel momento in poi, da quel primo vagito, da quel taglio netto, ci sperimentiamo soli e bisognosi dell’altro. Da quell’istante, la nostra esistenza sembra essere una lotta continua contro la solitudine. Di cui la felicità non pare compagna. La solitudine emotiva è poi la più terribile: è la condizione dell’essere (e sentirsi) soli in mezzo a tanti. Solitudine dell’anima, che genera solitudine del corpo. Certamente la più dolorosa, perché subìta interiormente, quasi come una beffa della vita. La solitudine dei numeri primi: somma senza unione di solitudini silenziose, differenza tra adattamento ed isolamento, (con)divisione senza resto del proprio baratro interiore. E poi la solitudine a casa, al tempo della pandemia. Quella dell’adolescente solo, della coppia logorata, dell’anziano senza legami, dello schermo che rende schiavi. La solitudine in ospedale, dove un virus ci ha svuotato di abbracci e di speranza, dove la mancanza di corpi amati è diventata terrore. 

Accogliamo allora l’appello della pandemia e ripensiamo la solitudine. È vero: nasciamo in un ‘noi’, da cui lentamente ci separiamo per poter dire ‘io’. Ma per giungere al ‘tu’, per ricostruire un ‘noi’ nuovo e diverso, per non chiuderci in una fortezza vuota, la solitudine resta uno spartiacque necessario. Cantava Gaber: “La solitudine non è mica una follia / È indispensabile per star bene in compagnia”. Perché la solitudine di cui ci lamentiamo è segnata dal ‘senza’: soli perché senza l’altro, senza stima, senza riconoscimento. Eppure, se viviamo questa esperienza fino in fondo, ne vediamo l’altra faccia. Come se avesse lo scopo di liberarci dal bisogno e dalla pretesa, per portarci nel giardino della unicità. È un cammino necessario a farci diventare umani. In Genesi, ad Adamo che si sente solo, dopo il peccato, nel giardino, Dio chiede: “Adamo, dove sei?”. Non perché Dio non lo sappia, ma per donare all’uomo l’interiorità (Buber). Chiamato a chiedersi “Dove sono?” Adamo riceverà il dono di sé stesso dandosi del ‘tu’ (Kierkegaard). Ovvero raccontandosi, come dicono i grandi studiosi della psicologia evolutiva (Stern). Come a dire che l’interiorità vissuta rende feconda ogni solitudine. Chi dimora in sé stesso, nell’ascolto del proprio corpo, cercherà l’altro non più come protesi del proprio io dolorante ma come compimento del desiderio di pienezza. È una cosa che si impara, sin da piccoli. Non diciamo ai nostri bambini: “Copriti, c’è freddo”, ma “Se c’è freddo, ci si copre”. Solo così potranno imparare ad ascoltarsi. E da giovani potranno giocare sia a tennis che a calcio. Reggere la solitudine del campo diviso dalla rete e gioire del dinamismo eccitante della squadra nel grande campo della festa. 

In principio stranieri a noi stessi, impariamo il silenzio, sentiamo il nostro respiro come un fiume carsico, come il fluire della vita. E troveremo le parole che ci diranno dove siamo e dove stiamo andando, dove l’altro ci attende. “Cantate e danzate insieme e siate felici, ma fate in modo che ognuno di voi sia anche solo, come sono sole le corde di un liuto, sebbene vibrino alla stessa musica” (Gibran). 

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