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La negazione dell’evidenza o l’imposizione di un significato che non le appartiene sono ‘campi’ nei quali il PBL non riesce a districarsi. Anche la rabbia furiosa, causata secondo il DSM-5 da «piccole offese e insulti», sottende in realtà una logica ferrea: deriva dal sentirsi imbrogliati e non sapere perché. La furia serve alla persona per non impazzire in una relazione in cui l’altro compie qualcosa di intrusivo, aggressivo, negando o svalutando la sua percezione. La rabbia esprime il bisogno di chiarezza, e assume una qualità implacabile legata alla necessità di sentirsi dire: «Hai ragione». Non si tratta di una ragione legata ai fatti, al come sono andate le cose concretamente, piuttosto di una validazione sostanziale della propria percezione: «Ciò che hai sentito di te stesso e dell’altro ha una radice di verità». Se questo fondo si costituisce, allora è possibile anche negoziare i significati, accettare la differenza dei reciproci vissuti e intenzionalità e infine gli esiti relazionali cui essi portano. Se ciò non accade, non può esserci spazio per altro se non per questa sensazione dolorosissima di ‘cortocircuito’ e di impazzimento. Per il PBL non è infatti possibile distinguere la negazione del proprio vissuto da un vissuto semplicemente diverso dal suo. L’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione, richiamata nel secondo criterio del DSM-IV – e assente tra le indicazioni diagnostiche del DSM-5 – risponde in realtà all’impossibilità di accettare i limiti dell’altro in quanto generatori di confusione e di terrore di essere imbrogliati. Allora è necessario scindere la realtà e le relazioni in modo verticale: o bianco o nero.
Andreana Amato, “«…Come se fossi nata ‘dispara’…» Il modello di Traduzione Gestaltica del Linguaggio Borderline (GTBL). Attestazioni cliniche”, in G. Salonia (ed.), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg. 98-99



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