Il senso di vuoto, ricorrente nelle parole dei PBL, è definibile come il vivere le esperienze in modo acuto in assenza di uno sfondo stabile capace di dare consistenza, contenimento e persistenza ai vissuti. Se gli stati affettivi e l’umore, nell’ottica della GT, non sono variabili individuali, ma il risultato di un processo di co- creazione relazionale, il senso di vuoto acquista la qualità specifica di una sensazione emergente nel campo quando, davanti all’altro, non posso definire cosa sento, se cioè quello che sento è mio o dell’altro, e allo stesso tempo non riesco a decifrare cosa sente l’altro verso di me. Come può dunque una presenza affettiva diventare qualcosa di assimilabile? Una relazione può farsi sfondo se non devo, in uno stato di iper-allarme, vigilare su qualsiasi segno, gesto, parola, dettaglio, per timore di un’incongruenza che mi ributti nella confusione. Il senso di vuoto consiste allora nel non raggiungere l’altro attraverso la propria chiarezza e, viceversa, non poter conquistare la propria chiarezza attraverso la sensazione di una profonda e autentica ‘affidabilità’ dell’altro. Se dal punto di vista clinico questa dimensione sembra essere una costante, su cui poggia l’intera esperienza di vita del paziente, da quest’ultimo essa viene esperita però come una dimensione ‘altra’, improvvisa, nella quale la persona sembra scivolare, in certi momenti, senza riuscire a controllarla e senza sapere esattamente perché, e la lotta per uscirne è estenuante.
Andreana Amato, “«…Come se fossi nata ‘dispara’…» Il modello di Traduzione Gestaltica del
Linguaggio Borderline (GTBL). Attestazioni cliniche”, in G. Salonia (ed.), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pp. 94-95