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In questi giorni la nostra società sta perdendo la definizione ormai pluriennale di ‘società liquida’ (Bauman) per ritrovare un Noi collettivo, che ci rende tutti connessi dal tessuto della paura… e dalla voglia di vivere.

Oggi il quotidiano La Sicilia riporta un lungo intervento del nostro direttore Giovanni Salonia su quali cambiamenti stanno avvenendo nella nostra società nel “Coronavirus-Day”.

Ve lo proponiamo integralmente anche qui.

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Siamo ormai inchiodati nel ‘coronavirus day’. Terminerà, e lo racconteremo, ma adesso dobbiamo attraversarlo, per vincerlo: “Go through is go out”, avrebbe detto Fritz Perls.

In ogni notiziario cerchiamo le risposte alle stesse domande: ‘Dove è arrivato il nemico? Quanti ne ha vinto? Quanto ancora durerà?’. Le risposte dilatano o contengono le nostre paure. È la paura che ci guida nel misurare la distanza del nostro respiro da quello dell’altro. La sentiamo risuonare nelle strade deserte. Accorcia gli spazi in cui possiamo muoverci. Ci obbliga a misurare più e più volte la distanza dentro le stanze di casa. E la paura dilaga nei più fragili, nei più piccoli.
Ma accanto alla paura abbiamo sentito in questi giorni lo ‘slancio vitale’, la voglia di vita che rende gli umani resilienti, più forti delle difficoltà, capaci di affrontare a testa alta le sfide della vita.

Ed ecco ad un tratto che la società perde la definizione ormai pluriennale di ‘società liquida’ (Bauman) per ritrovare un Noi collettivo, che ci fa ritrovare tutti connessi dal tessuto della paura e dalla voglia di vivere. Ed ecco il ritorno degli eroi.

Nei tempi normali viene chiesto agli umani di essere giusti, ma nei tempi di pericolo – come questo – abbiamo bisogno di eroi. E anche questa volta ne troviamo tanti: donne e uomini che rischiano la vita per proteggere la vita degli altri. Pochi o tanti che siano i limiti della sanità, oggi dobbiamo riconoscere che l’Italia ha personale ospedaliero di eccellenza: dentro il canto dell’Inno nazionale che risuonava nei balconi abbiamo sentito la fierezza per gli operatori sanitari, per la loro professionalità e umanità, per la sensibilità e l’interesse per gli ammalati, per gli ultimi.

Una prima riflessione. Già nel secolo scorso alcune malattie hanno fatto crollare l’iniziale illimitata fiducia nelle scoperte della medicina. Adesso il coronavirus distrugge anche la speranza illusoria che sia sufficiente il contenimento dei conflitti internazionali ad evitare catastrofi simili a quelle di una guerra. Dalle varie ipotesi causali – da quelle immediate (errore o strategia mortale) a quelle ideologiche (religiose o new age) – emerge comunque una certezza: siamo sempre ‘gettati nella vita’. Non potremo mai essere noi a donarcela e non ne saremo mai i dominatori assoluti. Gettati nella vita ma anche gettati nella morte, in questo indissolubile connubio tra eros e thanatos. Vivi ma mortali. E, ironia della sorte: questo virus uccide solo gli umani.

Dopo il primo passo – accettare di essere mortali, indagare con rigore sulle cause immediate del virus e sulle eventuali insufficienze nel combatterlo –, il secondo passo che ci viene chiesto riguarda proprio il “come” vivere questo attraversamento, questo coronavirus day. Punto di partenza è ricordarsi che quando diciamo che la realtà è ‘plastica’ intendiamo affermare che la realtà non è un’entità rigida, ma prende forma dal modo in cui noi la viviamo, dal significato in cui la inscriviamo e dall’energia con la quale l’affrontiamo. Ecco perché si rende necessario non solo avere informazioni tecniche, ma anche possedere una sorta di know how antropologico per trasformare il dato di realtà in esperienza umana.

Da qui, una seconda riflessione. Il coronavirus ci chiede di cambiare in modo radicale i nostri stili personali e relazionali. Da una società che, come dicevamo, era fatta di legami liquidi, nella quale il modello relazionale era paritario, il coronavirus day ci ha riportati ad una società in cui vige un modello relazionale Noi, che emerge a causa di un pericolo collettivo e quindi alla necessità di un assetto sociale verticistico. Nel coronavirus-day si ha bisogno di direttive univoche e chiare: anche i governanti devono tener conto, in modo determinante, non delle appartenenze partitiche ma del parere dei tecnici per salvare ogni uomo. E devono comunicare in modo efficace.

A questo punto si inserisce un’emergenza educativa: far comprendere ai nostri giovani che ciò che abbiamo con loro vissuto e a loro insegnato (il dialogo, l’ascolto di ogni parere, l’esprimere se stessi) è adeguato ad un tempo di non-emergenza, ma diventa dannoso in tempo di pericolo, quando abbiamo invece bisogno di un capo esperto che sappia come tirarci fuori dal pericolo. Maturità in questo tempo è tornare ad essere ‘ubbidienti’ (ai tecnici, agli esperti della salute, ai governanti).

Ritorna il Noi, appunto. Ricordiamo che dopo l’attacco alle torri gemelle, New York era tappezzata da scritte che inneggiavano al Noi: United we stand. Ogni emergenza ci ridà il Noi. Ma è necessario sottolineare che questo non è il Noi della reciprocità (l’andare all’altro quando si sta bene). Nel Noi creato dalla paura e dalla ricerca di sicurezze emergono barriere e non matura un vero interesse per l’altro, anzi si sviluppano appartenenze-contro (si può cantare ‘Fratelli d’Italia’ per separarsi dagli altri fratelli!). Come ci ricorda l’esperto del Noi, Martin Buber, dopo che ci si è sentiti uniti nella magia di una folla catturata, ad esempio, da un cantante, si tornerà al proprio individualismo se l’esperienza non avrà inaugurato cammini di reciprocità e di accoglienza.

Ancora, il coronavirus, come ogni emergenza, ci impone un riposizionamento della nostra intima gerarchia di valori. Riaffiorano con sfumature diverse o con valenze significative valori che abbiamo trascurato. Si impone quindi la necessità di ritrovare noi stessi, di tornare a noi stessi, di fermarsi in attesa che ‘arrivi l’anima’.

Si racconta di un esploratore che si avventurò in Africa accompagnato dai suoi portatori.  Correvano. Ma ad un certo punto i portatori si fermarono. “Perché vi siete fermati?” – chiese l’avventuriero. E la risposta fu: “Non siamo stanchi, signore, ma dobbiamo fermarci per aspettare le nostre anime, perché siamo andati così veloci che sono rimaste indietro”.

Siamo stati troppo presi dalla meta e abbiamo dimenticato il tragitto. Ora che la meta si è rimpicciolita come i metri della nostra casa, forse dobbiamo gustare il ‘passo dopo passo’, il ritmo in cui dimora l’anima. La lentezza come musica dell’interiorità. Il corpo corre, l’anima va lenta. Adesso ridiamo spazio all’anima, e cioè alle nostre emozioni, al nostro mondo interiore, alle poesie, alla musica, all’arte, a tutto ciò che ci in fa abitare il nostro mondo. Dobbiamo abitare – suggerirebbe Paul Ricoeur – le parti di noi che abbiamo trascurato (lo straniero che a volte siamo a noi stessi).

Tornare a casa e tornare a se stessi sono eventi intimamente connessi. Ha scritto Giovanna Giordano, che ci ha donato uno dei più bei libri sulla casa (‘La casa vissuta’): “Ritornare a noi non significa installarci dentro noi stessi, […] ma significa essere inseguiti da noi stessi fino a casa nostra. […] Per abitare il mondo è necessario aver abitato una casa, aver costruito una casa interna che aiuti ciascuno di noi a sopportare gli spazi aperti e diventare abitatori del mondo”.

Sarà impegnativo in alcune situazioni sentirsi costretti in spazi ridottissimi, stare tanto tempo gomito a gomito anche con persone care, rischiare di perdere il senso della libertà. Quante battute virali sottolineano lo stress a cui si può essere sottoposti non avendo una ‘uscita di sicurezza’ da casa e dai legami!

Forse sarà necessario chiedere aiuto. Forse potremo anche qui inventare strade in cui interiorità e incontro circolano in modo condiviso, rasserenante e – perché no? – arricchente.

Un’attenzione speciale va data ai bambini. Riprendere a raccontare storie e favole, a giocare con loro, in modo che sperimentino (loro ma anche noi) come una conversazione o una condivisione di esperienza hanno un calore e una forza mai immaginati.

Infine, siamo chiamati a vincere la spinta a chiuderci tipica della paura (ci salviamo solo io e i miei) e a restare aperti ai bisogni dei più deboli: gli anziani, gli immunodepressi, chi non ha casa, chi rischia il lavoro, chi (già fragile economicamente) è sull’orlo del precipizio. Una società costruisce un vero Noi se si prende cura dei più deboli. Inventiamoci vicinanze che, nel rispetto delle regole, non li facciano sentire inutili, fuori gioco.

Forse per ognuno di noi il coronavirus segna il tempo in cui scoprire la nostra chiamata a diventare ‘eroi’, artisti della nostra vita, come canta Emily Dickinson: “Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci”.

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