In un’ottica squisitamente gestaltica si vuole dimostrare come la “relazione che cura” rappresenti la modalità elettiva di intervento dove è indispensabile alleviare il dolore fisico e la sofferenza psichica e spirituale del malato terminale. Solo attraverso il contatto di corpo con un altro corpo, l’incontro di una soggettività con un’altra soggettività, utilizzando un linguaggio non verbale, fatto di carezze, di “corporeità”, nel qui e ora di una relazione empatica, è possibile offrire a chi soffre il sostegno necessario per andare “oltre” il dolore. Ci si mette in gioco nel porsi accanto, nell’esserci, riuscendo a trasformare l’angoscia del tempo che scorre passivo, in atto creativo, che supporta e consola, utilizzando il contributo delle neuroscienze che avvalora le nozioni legate all’intercorporeità ed all’intersoggettività.
Attraverso l’approccio gestaltico è possibile trasformare un luogo di cure eccessivamente medicalizzato come l’Hospice, in un “contenitore terapeutico” dove è possibile l’ascolto ed il racconto della sofferenza e dove si riesce a dare un senso persino al dolore, imparando a riassaporare anche le piccole cose che la vita ci offre, proprio quelle cose che si scoprono preziose quando a vita stessa sta per finire.