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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia. CLICCA PER LEGGERE L’ARTICOLO SUL QUOTIDIANO

di Giovanni Salonia

L’incubo della pandemia continua. Con alti e bassi. Rimane sempre, in ogni caso, un rischio mortale che destruttura il ritmo dell vita personale, relazionale, professionale. Le statistiche ci preoccupano. Certamente non ci danno la bella notizia che tutti aspettiamo: la vittoria sul virus. E nel frattempo?
Come attraversare questo tunnel mentre sperimentiamo con tristezza e preoccupazione che la speranza di uscirne viene continuamente disattesa? Questa calamità ci sta cambiando. Ci fa sentire confusi e impauriti, mette in crisi i nostri stili di vita e ci chiede risposte sempre nuove. Diventa quasi una sfida a far emergere potenzialità inespresse della condizione umana. Abbiamo bisogno infatti di ricordarci come la vera sfida non stia nella pandemia ma nel modo in cui rispondiamo al suo appello. Nessuna realtà si impone in modo assoluto, oggettivo: ognuno di noi ha il potere intimo, creativo, irriducibile, di aprirsi e di dare senso anche alla realtà la più amara. Viktor Frankl – reduce da Auschwitz – lo ha espresso in modo estremo: il nemico potrà privarti della vita ma non potrà mai toglierti la dignità e la libertà di dare il tuo senso al tuo morire. Perché la voglia di vivere non può essere soffocata.
La vita infatti non è solo vivere, ma è sentirsi vivi. Il sentirsi vivi è dentro la vita e ne è forse è il succo più segreto e più intimo: “Datemi il succo delle mie passioni” cantava Whitman. Non si tratta solo della forza di resistere alle difficoltà (l’ormai famosa resilienza), ma di un’energia che scorre in ogni vita come un fiume carsico, come una linfa vitale. In Terapia della Gestalt al concetto di resilienza preferiamo quello di vitalità: sentirsi vivi dentro ogni vita. Tutti amiamo la vita e la vorremmo ‘tutta’ e ‘sempre’. Dentro ogni scelta c’è il desiderio, la spinta ad accrescere la vita. Anche chi si toglie la vita sta dichiarando che ama la vita e rifiuta la vita che non è vita, non è gioia di vivere, non è pienezza di vita. Quando siamo scoraggiati o ci sentiamo travolti dalla sofferenza esprimiamo la nostra lamentela dicendo: ma che vita è questa?’ Vogliamo la vita, ‘in abbondanza’ però. È lecito chiedersi: la vita è piena quando tutte le circostanze sono favorevoli? La vita è bella solo quando non sperimentiamo l’asprezza del limite? Ecco dove si colloca la vitalità: è quell’energia calda e direzionata che ci fa sentire vivi anche quando la sofferenza prende la forma del morire. La vitalità ritrova in ogni situazione la via della pienezza della vita.
Tina, inchiodata per mesi a letto con il ventilatore, con i suoi occhi pieni di luce trasmette una vitalità che commuove e contagia. Con il filo di voce che le esce dalla bocca, togliendosi per un attimo il ventilatore, mi dice: “Ringrazio Dio. Non mi lamento. Dalla vita ho ricevuto tanto. Tutto è grazia. Sai, di notte sogno di essere piena di vita e camminare, come mi è sempre piaciuto fare”. Sorride quando le dico di rimando, citando il poeta: “Qual è la vera vita? Chissà che non sia quando sogniamo che viviamo davvero”.
Ma dove si attinge la vitalità? Dove si trova questo ‘sentirsi vivi’, questo ‘amare la vita’ senza aggettivi’? È un dono o un compito? Certo, la vitalità è dono: sentirsi amati e sostenuti da genitori che trasmettono energia e calore produce nel corpo quella vitalità che il più bel regalo che possiamo ricevere lungo il cammino. Ma per chiunque, per chi l’ha ricevuta e per chi no, c’è un momento in cui ci viene chiesto di partorirci di nuovo a noi stessi. Che può voler dire appropriarsi della vitalità ricevuta ovvero riscoprirla (il corpo non la perde mai), anche se non è stata sostenuta dalle figure genitoriali. Solo chi si ridà la vita si sente vivo.
Così è stato per Ciaula, una delle creature più belle di Pirandello, che sente il fluire della vita e piange sommessamente lacrime di commozione contemplando per la prima volta la luna, mentre il carico di zolfo gli cade dalle spalle. Così è stato per Etty Hillesum, nel campo di Westerbork: “Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio”.
La vitalità ci fa amare ogni vita, non disprezza nemmeno la più indifesa: contempla la luna, coglie la delicatezza nobile del gelsomino. Ogni vita disprezzata, ogni vivente rifiutato esprimono i limiti della nostra pienezza, della nostra vitalità. Solo il canto che fiorisce dal limite e nel limite è il canto della vitalità. Ma la strada è lunga. Passa dal sentire il proprio corpo in pienezza, accettandone la paura e la vulnerabilità, lasciando fluire il respiro della vita dalla gola ai piedi, oltre l’ansia del petto, al di là della tensione dello stomaco, dell’insensibilità delle viscere. Passa dall’aprirsi alle relazioni che ci costituiscono, cogliendo ogni goccia della loro acqua, ogni briciola del loro nutrimento. Sapendo che questo si irradierà nei corpi dei nostri figli, dei nostri compagni, dei nostri fratelli.
Così è stato per un uomo come Nino (Nino Baglieri, 1951-2007), precipitato da una impalcatura da ragazzo e fino a ventisette anni inchiodato, immobile, in un letto di rabbia, di dolore, di disperazione. Poi qualcosa si è sciolto. Ha incontrato amici, ha incontrato un annuncio di vita in cui ha creduto. Si è sentito rinascere: “Anche se sono rimasto nelle stesse condizioni fisiche, in me ora c’è tanta pace e tanta gioia… Quel 6 maggio 1968 non lo chiamo più il giorno della disgrazia, ma il giorno della grazia. In quel giorno sono rinato alla vita”.

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