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di Giovanni Salonia

Alice addentò un pezzo del fungo dopo che il bruco le aveva rivelato che anche solo un pezzettino, mangiandolo, l’avrebbe fatta rimpicciolire o crescere a dismisura. La piccola non sapeva di quale lato si trattasse, se quello di destra o quello di sinistra, poiché il fungo era perfettamente tondo. E si immerse nell’esperienza ignota del cambiamento. 

Decidere di crescere, decidere di rimanere piccoli. Scegliere cosa mangiare, scegliere se mangiare. Sapere come farlo, aver appreso a farlo. L’esperienza della piccola Alice narra della vita ritmata e per certi versi raccontata dal nostro rapporto col cibo e con quello che esso (ci) rappresenta. 

La fame all’inizio e alla fine. Il dono della vita avviene dentro una carenza di cui la fame è segno ossessivo e puntuale. Per vivere bisogna mangiare. Soltanto per gli umani il mangiare però non è un mero nutrire il corpo ma è inscritto intimamente dentro vissuti personali e relazionali. Sin dagli inizi, siamo un dialogo. Sin dagli inizi il cibo è parola che rivela e crea relazione. Nutrire e nutrirsi, infatti, non sono un dislocare il latte dal seno materno alla pancia di suo figlio: nutrire e nutrirsi hanno il ritmo e la forma di una danza tra la boccuccia del bambino e il capezzolo della madre (D. Stern). Perché – come recita un proverbio arabo – non solo il bambino ha bisogno di succhiare il latte ma anche la madre ha bisogno di allattare. Il cibo non nutre esclusivamente il corpo di chi lo riceve. Nutre le anime di chi nutre e di chi è nutrito. Il cibo mi rivela come sto con me stesso e come sto con l’altro. E se sto male con me stesso e con gli altri la spontaneità del mangiare si interrompe, generando disfunzioni nel nutrire e nell’essere nutriti. Un vissuto tossico e una relazione tossica avvelenano anche il cibo più genuino e gustoso.    

Secondo Freud, mangiando si sperimentano delle sensazioni che se positive riceveranno poi nel regno del linguaggio il nome di ‘fiducia’. Negli anni Quaranta del secolo scorso i coniugi Perls osservarono come la nascita dei denti aveva modificato nei loro figli sia i modi del mangiare (dall’ingoiare al destrutturare il cibo per farlo proprio, per assimilarlo), sia soprattutto i vissuti di forza relativi al sentire sé stessi di fronte ad altri. I denti che aggrediscono il cibo creano dunque il vissuto che ci consente di andare avanti, con forza, nella vita. I Perls capirono che l’atto del masticare coincideva con un processo di destrutturazione e assimilazione di ogni apprendimento e di ogni relazione. Con l’intuizione di Fritz e Laura Perls si concludeva il periodo in cui il ribellarsi al terapeuta era stato etichettato come difesa. Iniziava una nuova consapevolezza antropologica, nella quale l’opporsi poteva finalmente divenire espressione di forza e di crescita (la Gegenwille di Rank). 

La dentizione – ancora una volta la corporeità! – crea quindi una ristrutturazione del modo di apprendere e di entrare in relazione: l’opporsi all’altro come fase necessaria e positiva della crescita. Analizzare tutti i processi del mangiare (addentare, masticare, ingoiare) diventò per Frederick Perls un modo per comprendere il modo in cui la novità fosse presente in ogni apprendimento o in ogni relazione. Un altro grande maestro della Gestalt Therapy, Isadore From, iniziava la formazione alla psicoterapia chiedendo agli studenti di commentare un brano letto in precedenza. Emergevano le diverse modalità positive e/o disfunzionali dell’apprendimento. C’era chi ingoiava il testo, chi lo deformava, chi lo mutilava, chi lo personalizzava. Stili di apprendimento che diventano stili relazionali ed esprimono la competenza nel comprendere l’altro. Insomma: dimmi come mangi e ti dirò quanto mi capisci. Forza e fiducia come atteggiamenti di fondo di ogni nutrirsi: di cibo, di idee, di affetti. La masticazione è infatti la relazione originaria con tutto ciò che da noi si differenzia e che desideriamo assimilare. 

Pure la modalità con cui avviene racconta di noi. Pensiamo ad una madre seduta accanto al proprio figlio, intenta a spiegargli amorevolmente come si impugna una posata e come gentilmente si accompagna il cibo sin dentro la bocca. Ma immaginiamoci pure una madre che non abbia potuto gustare il calore reciproco sprigionato da una florida mammella in allattamento. Figli famelici, frettolosi e disordinati ingoiano il mondo esterno con voracità e scarso controllo, se poco hanno ricevuto e di tanto hanno avuto bisogno. È la fame di chi, per stare al mondo, ha dovuto accontentarsi delle briciole, confuse e scambiate per veri e gustosi pezzi di pane, nella voragine di uno stomaco (emotivo) costantemente alla ricerca della piena sazietà. Piatti sconditi dalla solitudine, pietanze salate dalla violenza: è la mensa degli affamati di cuore. C’è chi si abbuffa e c’è chi digiuna. In entrambi i casi, è negata l’esperienza dell’appagante sazietà.

A questo punto diventa chiaro come le sofferenze del comportamento alimentare rimandino a sofferenze relazionali. Se non mi fido, userò la forza per chiudermi al cibo (e all’altro). Se non sento la mia forza ingoierò tutto e tutti, per poi rigettarli interamente o tenermeli dentro intossicandomi. Nella cosiddetta postmodernità lo stile relazionale ‘usa e getta’ (“faccio una esperienza dopo l’altra senza fermami su nessuna”; “abolisco le pause dell’assimilazione”) è diventato una nuova disfunzione del mangiare. Come a dire: mastica e sputa! La dinamica è sempre quella: gusto ma non assimilo, non completo l’esperienza. Siamo incapaci di assimilare, di ‘stare con’, di dimorare negli apprendimenti e nelle relazioni. È – speriamo – una fase di transizione antropologica che si esprime nelle relazioni e nel nutrirsi. E che coinvolge anche i bambini, per i quali la malnutrizione non è più solo mancanza di cibo ma scelta di cibi meno salutari (dal Fast Food al Junk Mood, al cibo spazzatura). L’uomo è ciò che mangia: le conseguenze della malnutrizione infantile (e adulta) saranno negative per il corpo e per l’anima, nel breve e nel lungo periodo.

Rieducarsi al mangiare. Rieducarsi alla relazione. Sono percorsi che si intrecciano. Riscoprire il cibo buono per il corpo, il cibo giusto per nutrirlo bene. Condividendo il cibo con l’altro, condividendo l’anima nel cibo. Rendendolo all’altro nell’affetto e oggi più che mai anche nella giustizia (quanto cibo manca nel mondo per l’ingordigia dell’Occidente…). Allo stesso tempo però ci viene chiesto – nel cibo, e non solo nel cibo – di ripristinare i ritmi del gustare, del masticare, dell’ingoiare. Nella scelta audace della piccola Alice (il pezzetto di destra o quello di sinistra) si concentra il coraggio di un’esperienza senza precedenti, che sin dalla nascita delinea il nostro approccio e la nostra relazione col mondo. Mordiamo, mastichiamo la vita per continuare a farne parte. È questo forse il morso che dobbiamo tornare nuovamente ad imparare.

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Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia.

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