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Il mio esserci così costante e definito ha permesso al paziente [F.] nel qui-e-ora delle sedute di sperimentare diversi modi per trovare la giusta distanza emotiva da me. Nel frattempo la distanza fisica è stata definita: siede, infatti, in una posizione scelta da lui, a circa 3 metri di distanza, su una sedia vicino ad un’altra scrivania. Durante il secondo anno di terapia tenta di avvicinarsi con verbalizzazioni del tipo: «Quando si stancherà di me, me lo dirà perché io non finirò mai la terapia». E cerca anche di allontanarmi: «Lei è ignorante come tutti gli psicologi… io vengo in terapia perché lei ha bisogno di me per lavorare… anche lei mi legge nel pensiero attraverso le telecamere». Il mio esserci è stato sempre ancorato al qui-e-ora della esperienza con lui: mi sentivo atrocemente disgustata dalla sua cattiveria e sensibilmente presa dalla sua tenerezza e intelligenza. Ho utilizzato questo per costruire attraverso la relazione con me l’itinerario interrotto a sostegno delle funzioni sane: l’ambiente chiaro, definito, modificabile, rispettoso che gli era sempre mancato intorno. «Mia madre quando ero piccolo mi diceva, ‘vedi perché non devi stare nel lettone… ci sono i ragni, li vedi che camminano sulle lenzuola?’, io non vedevo niente… ma non sapevo se non c’erano veramente, ora lo so!». Ho pensato: ha dovuto impazzire per separarsi dalla pazzia della madre.

Valeria Conte, Il lavoro con un paziente seriamente disturbato: l’evoluzione di una relazione terapeutica in G. Salonia,V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pp. 98-99

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