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di Giovanni Salonia

Un uomo naufraga su un’isola deserta e resta lì, da solo, per cinque anni. Tra i detriti dell’aereo c’è un pallone di beach volley con una W stampigliata sopra. Con il sangue delle proprie ferite il naufrago, che si chiama Chuck Noland, dipinge un volto sulla superficie del pallone, lo battezza con il nome di Wilson (Mr. Wilson dunque)  e inizia con lui un dialogo inesausto, che lo accompagna per tutta la sua permanenza sull’isola. Sulla zattera che lo porterà via, Chuck rischierà di annegare pur di provare a salvare (inutilmente) Mr. Wilson caduto accidentalmente in acqua. È la storia di Cast Away, un celebre film di vent’anni fa. Wilson è una delle rappresentazioni significative del bisogno più antico e sempre attuale dell’essere umano: il dialogo. Il dialogo (per nulla monologo) tra Chuck e Wilson, tra pause silenziose e colme di significato, ci insegna che comunicare attraverso la parola è per l’essere umano come respirare. L’apnea la gestiamo e la sopportiamo, ma solo per brevi momenti, perché l’aria nei polmoni sappiamo quanto sia vitale. Silenzio è solitudine. E la solitudine è sopportata come l’apnea della nostra emotività, del nostro corpo bisognoso dell’altro, della nostra anima tutta.

Pronunciare parole per esprimere sentimenti, emozioni, parlare insomma, è una delle cruciali conquiste di un individuo, sin dalla nascita. Abbiamo imparato ad esprimerci a partire dai suoni confusi fino alle lallazioni, per approdare gradualmente alle frasi più semplici e via via le più complesse. Parlare è la risposta istintiva alla nostra innata fame di comunicazione, di confronto, di necessità di arrivare all’altro. E di essere raggiunti dall’altro. Di riflesso, diventa una delle perdite più dolorose e significative dell’età avanzata o della malattia, quando un corpo affaticato riesce a stento a comunicare la propria sofferenza, il proprio disagio, la propria stanchezza. L’isolamento emotivo che ne consegue sarà preludio alla morte dell’anima prima ancora di quella del corpo.

Che sia puro linguaggio verbale arricchito da toni, pause, esclamazioni, o che si tratti di comunicazione scarna, concisa e avara di accenti, certamente nasciamo desiderosi e bisognosi di comunicare. Innanzitutto per la sopravvivenza del corpo, dalla ricerca del cibo a quella del posto accogliente dove riposare. Poi per la sopravvivenza della nostra dimensione spirituale e intellettiva, perché lo scambio di opinioni, di frustrazioni, di idee, progetti e delusioni e di qualsiasi altra esperienza emotiva rappresenta il perno della nostra individualità concepita in un mondo abitato da umani. Senza troppe riflessioni, di istinto quasi, siamo pronti ad intavolare un discorso a voce alta anche da soli, rivolgendoci a noi stessi, se casomai le preoccupazioni prendono il sopravvento o se da troppo tempo non riusciamo a parlare con qualcuno. Come se ascoltare un dialogo a voce alta, anche solo con sé stessi, più che subirlo nel silenzio illusorio della mente, potesse rendere meno ingarbugliata la matassa, potesse mettere in ordine le idee, anche le più articolate.

Vivere è dialogare. Il poeta ce lo ricorda: «Sin dall’inizio siamo un colloquio».  E forse anche prima. Il nostro corpo prende corpo prima di esserci, nelle parole di chi ci attende. E anche quando non ci saremo più continueremo ad avere corpo nelle parole di chi di si ricorda di noi e delle nostre parole. Nessuno nasce quando nasce né muore quando muore. Le parole generano il nostro corpo prima che venga al mondo e lo mantengono in vita quando è andato via da questo mondo. Le parole poi tessono e riempiono le nostre esistenze. Sono le parole, infatti, che danno il sapore – dolce, amaro, agrodolce – alle nostre giornate. A tal punto che possiamo sospettare che anche la qualità del nostro sonno venga decisa dalle “parole”: quelle che abbiamo ascoltato, quelle che abbiamo generato, e anche quelle non dette e persino quelle taciute a noi stessi.

A questo punto molte sono le domande che emergono nel e dal fiume delle parole. La prima, la più semplice: perché  a volte le parole sembrano autostrade nelle quali possiamo esprimerci in pienezza e leggerezza e possiamo godere l’incontro con l’altro come una danza, mentre altri giorni ci sentiamo inceppati, ci sentiamo prigionieri delle parole che si attorcigliano e non si aprono, come fossimo in un labirinto da cui non riusciamo a venir fuori?

Ripensiamo alle nostre vicende relazionali. E ci accorgiamo come a volte l’essere diversi ci separa, altre volte ci unisce, e purtroppo non poche volte ci crea illusioni. Doloroso è scoprire dopo tempo che quella che pensavamo fosse intesa in realtà era solo un gioco di fraintendimenti e di attese, di bisogni e di paure. Forse, allora, il primo compito della parola è creare luoghi in cui i mondi diversi si riconoscano come diversi, senza ridimensionare o negare le differenze. Quando due diversi mondi interiori sono condivisi, si genera un’esperienza nuova (terza), si apre il mondo della traità, l’unico luogo in cui ci si può incontrare  senza orgoglio e senza paura.

L’incomunicabilità è prodotta dal chiudersi nel proprio mondo considerandolo l’unico possibile. Condividerlo come il ‘mio’ mondo, fatto dei miei vissuti, dei miei significati, senza pretese di oggettività o di superiorità ma con l’umile e realistico riconoscimento della mia soggettività, apre strade inedite e creative. Non è facile. Siamo troppo abituati, ad esempio, ad esprimerci in questi termini: «Film stupendo!», «Poesia magnifica!», «Sei antipatico!». Crediamo di essere sinceri parlando così ma in verità non siamo autentici, siamo lontani dal nostro mondo interiore. Non può esserci dialogo sul registro delle valutazioni assolute, delle generalizzazioni. Un dialogo vero inizia dalla condivisione soggettiva: «Mi è piaciuto quel film, quella scena, quella battuta mi è risuonata dentro»; «quando ho letto ‘sii fiore’ nella tua poesia mi sono commosso»; «Mi irrito quando dici queste cose, mi sento non visto». Da questo clima di condivisione e di ascolto si formano incontri profondi, generativi di relazioni significative. L’ascolto richiede la stessa dinamica. Prima di rispondere «anche io!», di fare inchieste, di contestare, di obiettare, bisogna accertarsi di aver compreso il mondo dell’altro nella sua unicità. Solo così si creerà il clima di incontro tra umani, compagni di viaggio. Dialogo è andare e venire dal mondo dell’altro al mondo mio. Dopo, molto dopo, sarà il tempo di precisare, di confrontarsi e ciò risulterà  arricchente, sarà una crescita nella conoscenza di me e dell’altro. Le obiezioni che emergono dopo la condivisone diventano occasione di crescita. Ci accorgeremo che a volte le obiezioni dell’altro mettono parole alle obiezioni che dentro di noi erano già pronte ad essere consapevolizzate. L’altro è il nostro ‘oltre’. L’”in-contro” accade proprio quando si coniugano l’”in” dell’andare verso (delle affinità) con il “contro” (delle differenze).

E proprio nell’importanza del dialogo intravediamo l’implicita pericolosità del silenzio, scelto o subìto che sia. Le peggiori incomprensioni sono troppo spesso figlie della scarsa o inesistente comunicazione tra due persone, e le tensioni inevitabilmente tendono ad acuirsi se continuano ad essere nutrite da inutile orgoglio silenzioso. Educare al dialogo, educare a costruire relazioni intelligenti (Martello), dovrebbe essere prossimo e continuo obiettivo per le nostre anime impaurite. Denominatore comune dell’origine degli squilibri è senza dubbio l’assenza del dialogo. Il potere delle parole e del calore trasmissibile attraverso di esse è il grande dono che troppo spesso tratteniamo in noi.

Forse è proprio il poeta a donarci il filo d’Arianna capace di entrare nel labirinto e di attraversare le parole, alla ricerca delle anime:

Quando ti parlo, mi duole che tu risponda
a quel che dico, e non al mio amore.
[…] tu pronunci parole che hanno senso
e ti dimentichi di me; anche se parli
solo di me, non ti rammenti che io ti amo.
Ah, non chiedermi nulla; piuttosto parlami
in modo che pure se fossi sorda,
ti sentirei soltanto col cuore (Pessoa).

***
Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia.

 

 

 

 

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