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Il testo è un estratto dal libro “Il trauma e il corpo in Gestalt Therapy“, di Simona Gargano, pubblicato a novembre 2022 da Pensa Multimedia nella collana dell’Istituto Gestalt Therapy Kairos

Appare con sempre maggiore evidenza che uno degli aspetti più deleteri e nocivi del trauma risieda proprio nell’esperienza di perdita, nella persona traumatizzata, del cosiddetto senso di agency, che corrisponde – grossomodo – all’aggressività gestalticamente intesa: l’esperienza di aver subito passivamente il trauma genera un vissuto ed una percezione del Sé come debole, impotente e passivo. Verrà meno, quindi, la stessa forza vitale e propulsiva (l’aggressività cui si è già accennato) che permette all’essere umano di viversi – appunto – come ‘umano’, ovvero capace di trascendere la propria condizione biologica deterministicamente data, attraverso l’esercizio della propria libertà e possibilità di autodeterminarsi. In particolare, secondo alcuni studi, l’esperienza traumatica subita, incidendo sul senso di ownership del proprio corpo e su quello di agency, porterebbe ad una percezione di sé come oggetto o strumento più che come essere umano. Nel linguaggio heideggeriano, si potrebbe dire che, nel trauma, un con-esser-ci viene ridotto ad «ente utilizzabile»: l’altro, che ha per Heidegger «il modo dell’esser-ci», viene reificato, divenendo «utilizzabile» o «semplice-presenza». […] Il corpo della persona traumatizzata, quindi, viene percepito come oggetto (ob-iectum, letteralmente «gettato davanti», «posto di fronte»), strumento in balia dell’altro e dell’A., senza alcuna possibilità d’azione. In tale circostanza, anche l’intenzionalità relazionale recede sullo sfondo e fatica ad emergere in figura: se non sento di avere potere sul mondo, di poter agire e muovermi liberamente in esso, allora, per una forma di adattamento creativo, sentirò meno forte la spinta intenzionale verso di esso. Tutto ciò sta probabilmente alla base della frequente associazione, documentata in letteratura, tra l’aver subito (o assistito a) eventi traumatici e l’insorgenza di sintomi depressivi, tanto che alcuni studiosi hanno parlato di «depressione post-traumatica»

Sembrerebbe, quindi, che la percezione di sé e del mondo sia influenzata proprio dal grado di possibilità d’azione che il soggetto sente per sé: l’‘io posso’ influenzerebbe e determinerebbe, così, il modo in cui vediamo noi stessi ed il mondo, ripercuotendosi necessariamente sul nostro modo di rapportarci ad esso. Come dice Salonia, dunque, «percepirò il mondo in modo diverso, a seconda delle potenzialità che sento di avere in esso»: il modo in cui percepiamo, che dipende dalle possibilità d’azione che sentiamo di avere, esprimerà, allora, il nostro stesso modo di essere nel mondo, in modo tale che «l’io posso determina l’identità»

Alla luce di quanto detto, si potrebbe sostenere che l’effetto paralizzante del trauma, che spezza la trama relazionale del soggetto ostacolandone le possibilità di crescita, si manifesta principalmente attraverso il danno che genera a livello della funzione-Personalità dell’O.: infatti, il precipitato delle esperienze dell’O. nel corso della sua vita «è inevitabilmente presente nel ciclo di contatto o come ostacolo o come sostegno». […] Alla luce di tutto ciò, e considerando il fatto che in GT la funzione-Personalità riguarda essenzialmente i «pensieri connessi con l’esperienza, ossia i pensieri ‘corporei’», appare chiaro come le esperienze traumatiche possano incidere sul modo di sperimentare e pensare a sé stessi e al mondo.

Nel caso del trauma, che, come abbiamo visto, interrompe bruscamente e massicciamente la trama storica e relazionale del soggetto, avviene una profonda alterazione di ciò che si è definito «dialogo intrapersonale», premessa indispensabile per quello interpersonale. Il trauma, cioè, va a riconfigurare lo sfondo di qualsiasi successivo contatto, frammentandolo ed impoverendolo, e, come ogni evento inter-corporeo, si riverbera inevitabilmente sulle convinzioni, sui pensieri e sugli atteggiamenti dell’O.: tutto ciò andrà ad inquinare ogni nuovo episodio di contatto.

A seguito di uno o più traumi, uno degli elementi più dannosi per l’O. è la perdita del senso di agency, ovvero la perdita della possibilità di sentire e pensare a sé stessi come esseri auto-efficaci, intenzionali e capaci di autodeterminazione. Alla luce di questo, si intuisce l’importanza del «gesto autogenerato» nella terapia del trauma: come scrivono Perls, Hefferline e Goodman, «in una situazione emotiva, l’emozione stessa non viene sentita finché non si accetta il comportamento corporeo corrispondente.

Sulla scia di quanto detto, l’unico modo per intervenire efficacemente sui pensieri e sulle parole che l’O. genera su di sé e sul mondo a seguito di esperienze traumatiche, sarebbe quello di consentirgli di coinvolgersi in altre esperienze relazionali che gli offrano possibilità inedite, riducendo al contempo i danni e colmando le lacune che avevano caratterizzato quelle originarie, cosa che gli consentirà di ritrovare la fiducia necessaria per abbandonarsi all’ascolto del proprio corpo, al fine di ritrovare quelle precise azioni e quelle specifiche parole che avrebbe voluto dire o portare a termine nelle situazioni incompiute del passato. 

Tali nuove esperienze relazionali, vissute all’interno di una relazione asimmetrica di cura con un terapeuta responsabilmente coinvolto, una volta assimilate dall’O., andranno a depositarsi sullo sfondo dei suoi successivi episodi di contatto, dandogli maggiore densità e rendendolo meno frammentato e disomogeneo: in tal modo, si creeranno le premesse per contatti più sani, basati su modi nuovi di percepirsi e di pensarsi in relazione al mondo.

L’ipotesi sostenuta da Liotti, Fonagy e Target, Siegel, Van der Kolk e molti altri ricercatori e clinici di rilievo internazionale, secondo la quale lo stile di attaccamento rappresenterebbe la variabile centrale che medierebbe le differenti risposte al trauma, viene qui riletta ed ampliata alla luce della teoria gestaltica, che non vede mai l’Organismo Animale Umano come individuo separato dal suo A., ma sempre in intima ed imprescindibile relazione con esso: in quest’ottica, non si parla di stile di attaccamento del bambino (non è il bambino che ‘si attacca’), ma di stile relazionale, che nasce, si sviluppa e si dispiega continuamente nella relazione con l’altro, emergendo all’interno del campo relazionale co-creato durante l’interazione tra O. ed A. Si tratta di un passaggio sottile che rappresenta una svolta ancora più relazionale rispetto a quella già effettuata all’interno del contesto psicanalitico, che – grazie ad autori come Sullivan, Mitchell e Schore ed ai contributi delle neuroscienze e dell’infant research – ha infine riconosciuto l’importanza dell’elemento reale rispetto all’elemento fantasmatico intrapsichico: in GT, infatti, non si parla mai di due individui separati, ognuno con un proprio ‘mondo intrapsichico’, che si relazionano tra loro, ma di Organismi necessariamente e costantemente in relazione al loro A., in uno scambio osmotico continuo, all’interno del quale vissuti, pensieri ed azioni di entrambi i poli dell’interazione – che si dispiega continuamente nel ritmico alternarsi di episodi di contatto/ritiro dal contatto – acquistano il loro più autentico significato

Sia nel PTSD sia nelle due forme di esperienza (eccessiva o deficitaria) alla base del trauma complesso, ciò che accade è sostanzialmente una ‘passivizzazione’ estrema dell’O., che fa esperienza della propria irrimediabile impotenza, giacché l’evento è inevitabile e ricade necessariamente al di fuori della sua sfera d’influenza: qualsiasi cosa faccia, egli non potrà evitare l’incidente d’auto nel quale sta per essere coinvolto, non potrà sottrarsi all’abuso né esercitare alcuna influenza sul genitore trascurante. Quindi – come sappiamo –, nel trauma l’O. viene ‘reificato’, ovvero trasformato da soggetto in oggetto, cosicché egli perde totalmente la propria capacità di ‘aggredire’ la vita, di agire attivamente e creativamente su di essa. 

Si potrebbe ipotizzare che questa esperienza di impotenza estrema alla base di ogni tipo di trauma – non potendo essere distrutta né assimilata e configurandosi come esperienza intercorporea che si riverbera negativamente sulle parole e i pensieri che l’O. formerà su sé stesso e sul mondo – vada a configurarsi come una sorta di ‘introietto intercorporeo’, che, depositandosi sullo sfondo dell’O., necessariamente ne ostacolerà la funzionalità relazionale: come precedentemente discusso, infatti, dal livello corporeo (funzione-Es), l’esperienza traumatica andrà a riverberarsi anche sul livello cognitivo-verbale (funzione-Personalità), in modo tale che non verrà alterato soltanto il funzionamento fisiologico dell’O., ma anche la sua rappresentazione di sé stesso e del mondo. Per tale ragione, tutti i successivi contatti prenderanno le mosse da uno sfondo ‘inquinato’ dall’esperienza traumatica: le successive figure che si formeranno, infatti, non avranno la freschezza e la luminosità che normalmente contraddistinguono le figure nuove, ma saranno sempre filtrate dalle lenti – deformanti – del trauma.

In GT l’obiettivo primario della cura risiede, da sempre, proprio nel conseguimento dell’integrazione sensoriale e motoria dell’esperienza, si parla infatti di «esperienza sinaptica». 

Oltre a questa attenzione all’integrazione dell’esperienza, un altro elemento specifico del nostro approccio risiede nella particolare importanza attribuita alla relazione di cura, vista come principale elemento terapeutico, capace di fornire sostegno e contenimento al paziente, spesso traumatizzato proprio nel contesto delle relazioni primarie. In effetti, l’O. che ha avuto uno sviluppo traumatico, essendo cresciuto all’interno di una trama relazionale inadeguata, non ha potuto ricevere il sostegno necessario per poter transitare dal bisogno (di integrità) al desiderio (di pienezza), andando incontro ad un importante blocco evolutivo. Alla luce di ciò, il primo passo per consentire l’elaborazione dell’esperienza traumatica consiste proprio nel fornire al paziente una trama relazionale sana, giacché «avere una trama in cui assimilare l’esperienza significa elaborare il trauma». Il venir meno della fiducia e la memoria corporea del trauma creano nel corpo della persona traumatizzata una serie di tensioni e desensibilizzazioni che ne rimpicciolisce o altera lo schema corporeo implicito generando una sorta di «postura antalgica» che funzionerà come un’autentica «fisiologia secondaria»: come afferma Salonia, infatti, «nel trauma il corpo non è più rilassato, non ha fiducia e si protegge lì dove è stato ferito». La postura antalgica così generata si configurerà come un insieme di adattamenti ad «esigenze ambientali croniche dolorose» e porterà necessariamente ad un funzionamento ridotto e/o alterato del Sé: il paziente, infatti, metterà in atto inconsapevolmente modalità relazionali poco funzionali o nettamente disfunzionali nel presente, avendo perso nel tempo la consapevolezza della loro originaria funzione adattiva.

Per i pazienti traumatizzati «fare esperienza dei propri corpi può essere stato associato così fortemente al dolore, alla malattia o alla violazione da indurli a trasformare i loro corpi in qualcosa da evitare»: in particolare, «più funzioni di contatto sono rinnegate, più ristretta è la gamma dei comportamenti disponibili per l’azione all’interno dell’ambiente. L’io diventa più rigido e compresso». Di conseguenza, poiché l’azione in GT è vista come la naturale evoluzione della sensazione, se quest’ultima risulta inaccessibile o scarsamente accessibile alla consapevolezza, allora anche la gamma di azioni possibili nel mondo, inevitabilmente, risulterà limitata. Come accennato, ciò comprometterà l’‘io posso’ (o agency) dell’O. e avrà pesanti ricadute sul suo stile relazionale: il trauma, ostacolando l’accesso alla totalità delle sensazioni e delle potenzialità motorie, emotive ed esperienziali dell’O., andrà ad influire in modo distruttivo sulla sua autopercezione ed autorappresentazione, compromettendo rovinosamente la possibilità di un coinvolgimento pieno nel contatto con l’A.

Alla luce di ciò, sarà di grande importanza riuscire ad individuare le tensioni inscritte nel corpo del paziente, poiché proprio in esse sarà possibile riscoprire l’originaria intenzionalità organismica bloccata, e così fornire al paziente stesso il sostegno specifico necessario per portarla a compimento. In particolare, poiché molte tensioni corporee sono legate a gesti che non abbiamo portato a termine, «individuare le tensioni vuol dire individuare dove c’è un gesto mancato o un’immagine bloccata».

Le nuove esperienze relazionali col terapeuta, una volta assimilate dall’O., andranno a depositarsi sullo sfondo dei suoi successivi episodi di contatto.

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