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“Tutto ho perduto dell’infanzia
E non potrò mai più
Smemorarmi in un grido.” (G. Ungaretti)
Il dolore comincia da questa poesia semplice e intensa, come una confessione che nasconde nel suo seno una sottile analitica dell’esserci nel suo patire sulla soglia ultima, mortale. Il dolore nella forma estrema appare in Tutto ho perduto come una separazione da un tempo mitico e felice, il tempo dell’infanzia, la cui immagine potente è quello «smemorarmi in un grido» che dice la condizione vocale del corpo prima della parola. Il grido precede l’articolazione linguistica ed è la modalità originaria del suono emesso senza soluzione di continuità da un corpo ancora non parlante, privo di memoria, puramente abbandonato alla vita in un eterno presente senza storia. 

Opera di Angelo Ruta

È da questa letterale in-fanzia che è stato allontanato il poeta, costretto a seppellire l’eden «nel fondo delle notti» e quindi a rimanere «separato da tutto», perché quando si è staccati dalla sorgente della vita non si può incontrare il mondo. (In questo senso, sia detto per inciso, ogni disagio psichico grave potrebbe essere letto poeticamente come una cronica, disastrosa perdita dell’infanzia). Colei o colui per cui si esultava (è questa l’unica realtà che torna alla mente del poeta) non è più e il sofferente si sente perduto «in infinito delle notti», che è un infinito dalla forma notturna e seriale, quasi per suggerire che nel dolore, lancinante del distacco dall’amato l’infinito ‘è’ le notti, ovvero non ‘una’ notte di prova, ma un perpetuo spazio notturno in cui ci si perde senza speranza del giorno, senza la sensazione di un’alba possibile.

Antonio Sichera, Ungaretti. Il dolore, in GTK 6, Rivista di Psicoterapia, Maggio 2016, pagg. 65-66

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