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Silenziosamente ma decisamente abbiamo iniziato dentro di noi il count down. Ogni giorno sentiamo la vittoria sempre più vicina. Pericolo scampato! Per questa volta ce l’abbiamo fatta! Un sollievo. Il rischio si allontana. E riprendiamo l’agenda per riprogrammare i nostri impegni. È più sicuro a settembre o a dicembre? E la scuola quando riprenderà? I negozi e i ristoranti quando riapriranno? Il matrimonio: lo spostiamo all’anno prossimo? E quel convegno: si potrà fare in autunno? Ancora più drammaticamente, per tanti: quando potrò ricominciare a lavorare?

Vorremmo chiarezza e convergenza da parte degli scienziati, ma le valutazioni sono spesso fluttuanti e quasi ci spingono a dichiararci competenti. Come dopo una partita finita male: ci si scopre tutti allenatori. Cominciamo a chiederci se per caso non si sia esagerato con questi appelli e queste restrizioni. E ci ricordiamo di Cosimo, il personaggio di Calvino che la notte dopo l’incendio in cui si era improvvisato a fare il capo degli spegnitori, era tentato di dar lui fuoco alla campagna, per poter gustare di nuovo il piacere di comandare. Voci e pensieri tra di noi e sul web: forse i politici ne stanno approfittando?

La questione è chiara: dopo il coronavirus torneremo ad essere i postmoderni di prima? Il rischio è alto. Ognuno forse racconterà la storia a modo proprio. Ci ritroveremo di nuovo frammentati. Metteremo in discussione tutto e il contrario di tutto. Magari anche quanto è stato fatto finora. Qualche cerimonia di commemorazione per gli eroi, e via. Ricominceremo, come ricomincia a sfarinare sigarette il fumatore incallito dopo la polmonite, o come l’antico marinaio che si scorda promesse e giuramenti. Cercheremo di dimenticare tutto. E di tornare a ‘come era prima’. Quasi che il coronavirus fosse stato un lungo 11 settembre…

Ma sarebbe un errore imperdonabile. Il coronavirus non è stata una guerra. Non è stato un attacco terroristico. Il virus è stato la ribellione della grande casa che abitiamo – la madre terra – al nostro stile di vita. Dopo le guerre, l’unico compito affidato al popolo era quello di riedificare la città distrutta, mentre ai governanti si chiedeva di elaborare scelte politiche che evitassero altre guerre e altre sconfitte. Adesso – e questa è la novità – il cambiamento dovrà coinvolgere tutti: i governanti, gli economisti, gli educatori, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino.  Il coronavirus ci ha ricordato in modo spietato che siamo sulla stessa barca: o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Nessuno può sottrarsi al cambiamento. Il nemico non è un altro stato. Il nemico non è altrove. Ci è vicino, ci è troppo vicino: è il nostro stile di vita. Se vogliamo un futuro, per noi, per i nostri figli, non dobbiamo prepararci alla guerra secondo l’antico adagio ‘Si vis pacem para bellum’, ma dobbiamo entrare in una nuova logica: se vuoi la pace costruiscila qui e adesso. Con il ‘tu’ e con il ‘ciascuno’, con il vicino e con il lontano, con ogni vivente e con il creato. L’unica arma per il futuro è la nostra umanità: diventare umani, restare umani, tornare umani. Questo cambiamento lo dobbiamo ai figli dei nostri figli, lo dobbiamo a tutti coloro che sono morti perché vinti dal virus, e a quanti – vera punta di diamante della nostra umanità – sono morti per salvare altre vite. All’ingresso del campo di concentramento di Dachau è scritto: “Chi dimentica la propria storia si condanna a ripeterla”.

Non chiudiamo di corsa la crepa che si è aperta nel nostro stile di vita. Creiamo un nuovo orizzonte in cui collocarci, perché in gioco c’è la nostra gioia di vivere. Non un compito imposto da qualcuno, dall’alto, ma un invito a ritornare al ‘cuore’ del nostro cuore: là dove vogliamo vivere e vivere con pienezza.

Sono stati settantacinque anni – questi nostri – guidati da una voracità che forse rappresentava l’onda lunga delle grandi guerre. Come se l’avere, l’accumulare, fossero diventati l’unico modo di vivere. Come se non avessimo bisogno di poesia, di bellezza, di relazioni, ma solo di cose e di potere.

Il virus ci ha fermati, ci ha chiusi in casa, ci ha costretti a cambiare i ritmi della nostra esistenza. È stato la lectio magistralis del nostro tempo. È necessario cambiare. Iniziare a scrivere una pagina nuova. Impariamo a vivere pienamente l’oggi. Dentro ogni oggi cerchiamo il senso della nostra esistenza. Nessun istante delle nostre vite deve essere legittimato dall’istante successivo. Dobbiamo tornare a gustare il presente per preparare il futuro. Non manchiamo all’appuntamento con noi stessi e con quei legami che sono il tessuto della nostra esistenza. Perché c’è un momento, ed è questo, in cui si deve passare dall’avere al condividere, dall’isolamento alla reciprocità. “Se non pensi a te chi vuoi che ci pensi?”, recita un detto ebraico. Ma se pensi solo a te che senso ha la tua vita?

Entriamo insieme nella logica della pienezza, che non ci chiede di innalzarci da padroni del mondo, ma di abbassarci, come canta il poeta, fino ai piedi dei bambini. Per continuare a fidarci come loro malgrado le ferite della vita, per imparare di nuovo a correre per goderci il panorama, per gustare il nuovo abbraccio e la sua vitalità, per gustare la casa e il suo fuori, per gustare il silenzio, per gustare il fatto di essere uomini, di esserlo in questo mondo, che non è né un inferno né un paradiso, ma un insieme di possibilità vitali. Il mondo può essere rifatto. La parola che i Greci usavano per dire questa cosa era poeisis. Sin da allora il folle saggio aveva ragione: solo poeticamente l’uomo abita il mondo.


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