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di Giovanni Salonia*

L’antica amicizia tra l’animale e l’uomo accompagna l’esistenza della nostra specie, come sanno bene i sofferenti e i poeti: allevia le notti insonni (ricordiamo «le mani affogate nel pelo del cane, il cane canuto» di Marina Cvetaeva), educa a un arcaico e gratuito prendersi cura ( «La mia beagle, Sciuka» mi dice Giada, una paziente, «mi ha insegnato ad amare, a prendermi cura di lei; dopo, lei si è presa cura di me»), interpreta i nostri vissuti (quando la madre del Pascoli dice alla cavallina storna il nome di colui che le aveva ucciso il marito: «…Sonò alto un nitrito»), rimanda all’armonia dell’esistenza (Duncan canta del cavallo: «Qui, dove la grazia è intrecciata di muscoli, e la forza è costretta dalla gentilezza»). Ma si può andare più a fondo. 

A una riflessione attenta, infatti, appare chiaro come l’identità umana sia intimamente costituita dall’essere animale. Prima di pervenire al pensiero siamo animali che sentono e entrano in contatto. La relazione è infatti esperienza di intercorporeità (corpi-tra-corpi che interagiscono): soltanto se le parole sono generate dal corpo raggiungono un altro corpo e creano relazioni. È stato affermato a ragione che gli animali mettono in crisi l’antropocentrismo (Barth) e possono addirittura educare l’uomo. In verità essi ci insegnano come alcune difficoltà degli umani con il proprio sé e con gli altri, in particolare con i piccoli e con i feriti dalla vita, derivino dal nostro parlare con parole aride, separate dal mondo delle sensazioni e delle emozioni. L’animale ci riporta alla radicalità dell’incontro tra corpi, fondamento e garanzia di ogni altra interazione: gli umani entrano in contatto con l’Ambiente (umano e non umano) partendo dall’universo delle sensazioni, delle vibrazioni, dei sensi. Perché l’uomo colga il senso pieno dell’esistenza (e del co-esistere)  deve trovarsi dentro i sensi e solo dai sensi far emergere il senso, la genuina intenzionalità di contatto che permette ad ogni animale umano di raggiungere integrità e pienezza. 

Ricordando il rimando semantico al termine ‘anima’, un teologo ebreo – Paolo De Benedetti – parla agli animali come «fratelli minori» affidati agli umani. Sembra proprio che nei confronti degli uomini gli animali manifestino «a volte, un comportamento oscuramente ma innegabilmente religioso» (Damien). E ricordando i tanti suoi cani, così De Benedetti si rivolge a Jahweh: «se non prometti che lassù vedrò / anche Flock, anche Cino, Dick, e Lilla, / Puck e Babù e Fufi / ti restituisco la resurrezione / e resto nello sheol». 

Il bambino sa che può fidarsi dell’animale perché ambedue vivono e parlano lo stesso silenzio che è il linguaggio delle sensazioni, delle vibrazioni, dei corpi che interagiscono in quanto corpi: si capiscono senza parole. Le parole – dominio degli adulti, aspro e arduo punto di arrivo per i bambini – non sono necessarie con gli animali. Per questo l’animale diventa mediatore privilegiato nella terapia con i bambini e con tutti coloro che vivono il parlare come impresa impossibile (A. Merenda). Dall’alleanza con un animale il bambino riceve compagnia e forza. Per questo, la presenza dell’animale a volte è una necessità di crescita per i bambini. L’animale (e il bambino) chiedono all’adulto di collocarsi nella terra di tutti, là dove il potere è sottratto all’arroganza delle parole ed è ricondotto alla sua fonte che è l’essere vivente. Come frecce senza direzione e senza energia, le parole non raggiungono nessun corpo se staccate dai sensi e dalla vita. Nella terra di tutti (che non ha proprietari ma custodi) ci si incontra nella misura in cui si è disposti a esporsi e incontrarsi anche indifesi. Sono i bambini (e gli animali) i maestri dell’incontro tra corpi, del toccare che è parlare, dell’intendersi senza dominarsi. Gli umani non riescono ad incontrarsi se si affidano solo al potere delle parole: quando l’abisso del dolore e dell’impotenza attanaglia l’esistenza, quando le parole falliscono, si deve ritornare ai sensi, cioè ad ascoltare e a comprendere gli animali e i bambini.

C’è una fiaba dei Grimm che può farci da battistrada nel viaggio verso la natura animale e bambina del nostro essere. Si intitola I musicanti di Brema. Un asino, un cane, un gatto e un gallo sono uniti dalla medesima triste sorte, quella di essere destinati alla morte perché ormai vecchi e ‘inutili’ per i loro padroni. Decidono perciò di abbandonare le proprie fattorie e di dirigersi insieme verso Brema, in Germania, per vivere senza padroni e provare a diventare musicisti nella banda della città. Lungo la strada, stanchi e stremati, scorgono una casa illuminata e alcuni briganti seduti attorno a un’invitante tavola imbandita. I quattro amici architettano un piano per spaventarli e farli scappar via: l’asino poggia le zampe anteriori sul davanzale, il cane gli sale sopra, il gatto si arrampica sul cane e il gallo si siede sulla testa del gatto. Al segnale concordato ogni animale grida il proprio verso, creando un trambusto che spaventa i briganti e li fa fuggire nel bosco. I quattro entrano in casa e finalmente si rifocillano. Uno dei briganti, quella notte, prova a rientrare nella casa, ma nel buio più fitto il gatto lo graffia, il cane lo azzanna, l’asino gli tira un calcio e il gallo canta a squarciagola il suo verso. L’esito è prevedibile: fuga precipitosa del brigante che corre ad annunziare ai propri compagni come la casa sia infestata dagli spiriti. D’ora in poi quella casa diventerà la felice dimora dei musicanti di Brema.

In una fiaba, nel racconto semplice e lineare della curiosa avventura di questi quattro amici animali, troviamo tutto quello che noi ‘umani’ non dovremmo mai perdere di vista. Saggezza, fedeltà, istinto, fierezza. Un asino saggio, un cane fedele e fiducioso, un gatto tutto istinto, agilità ed eleganza, un gallo pieno di esuberante vitalità ci vengono incontro. E ci insegnano che per essere felici siamo chiamati a fidarci della sapienza dei piccoli, a vivere la fedeltà come spontanea adesione all’altro e alla vita, a esprimere con morbidezza il nostro sentire immediato e potente, a non perdere mai il canto e la speranza di una nuova alba, la speranza di rinascere.

*Dalla rubrica del nostro direttore Giovanni Salonia sulle pagine de La Sicilia.

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